Palermo città riaperta, torpore addio?

ALIAS DOMENICA
Palermo città riaperta, torpore addio?
Ricognizione d’autunno tra festival, restauri, palazzi nobiliari, chiese, affreschi. Un Pietro Novelli che riaffiora, Serpotta rilanciato da un americano, Stomer a piazza Bologni: dimore nobiliari e cripte ‘al pubblico’, molto resta da fare…
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Una veduta del centro storico Palermo
Claudio Gulli
PALERMO EDIZIONE DE 22.11.2015 PUBBLICATO 22.11.2015, 0:58 AGGIORNATo 19.11.2015, 17:59
Una volta Cesare Brandi disse che a Palermo era meglio arrivare «per mare», perché «questa città non vi si presenta come un qualsiasi porto di mare, ma come l’arrivo alla fata morgana e che debba dissolversi quando state per mettere piede su quella riva, e invece della terra, di quei monti, di quei campanili e di quelle cupole, farvi trovare di fronte a un deserto» (Sicilia mia, 1989).

Quest’anno il deserto è stato popolato da una fiumana umana. Ma quanta differenza rispetto alle orde crucche o texane che intasano Firenze o Venezia, alla Roma giubilare, alla Milano afflitta da Expo! Chi viene a Palermo spesso non corrisponde in pieno allo stereotipo del turista: non si viene per affari, e magari c’è da convincere la nonna che non è il caso di star lì a preoccuparsi. Se si vuole mantenere il sorriso, non va storto il naso per l’immondizia per strada o per i cani randagi. Conviene invece approfittarne per prendere qualche chilo in più. Solo ora le strade principali – Corso Vittorio Emanuele e Via Maqueda, incrociate nei seicenteschi Quattro Canti – sono state pedonalizzate e sembra vogliano rifarsi il maquillage. C’è una libreria davvero seria e attenta, quasi una mini-biblioteca a scaffale, per la storia dell’arte locale (la Libreria del Corso), abbondano ancora i negozi di paccottiglia, ma iniziano anche a spuntare donne continentali che vendono succhi di pomodoro biologico. La chiesa del Santissimo Salvatore può piacere per l’architettura (dal 1682), a opera di Paolo Amato, un piccolo Bernini panormita e clericale che amava ordine e maestosità ben più dei virtuosismi. O per gli affreschi nella cupola di Vito d’Anna (1763-’65): doveva splendere di volti che ti guardano da sopra. Dopo le bombe e i massacri dei restauri, ora si può anche salire sulla cupola: ecco i tetti scoperchiati e i campanili dimenticati. Fuori, per strada, i palermitani non cambiano mai: c’è chi vive senza una lira e legge tutto il giorno, tanto un piatto di pasta può sempre costare tre euro e cinquanta. Ma quanto rimane ancora da fare: nella chiesa di San Giovanni dell’Origlione, a due passi dal mercato di Ballarò, nel 2011 l’architetto della Soprintendenza Giovanni Errera ha ritrovato il brano di un affresco di Pietro Novelli sotto uno strato di intonaco. Si credeva perduto, e invece questo ‘Trionfo di David’ (1635 circa) è tutto lì, ma mancano i soldi per recuperarlo – un’associazione, Italia Nostra, si sta occupando del crowdfunding. L’assurdo è che l’affresco era stato coperto negli anni Cinquanta. La chiesa era chiusa da tempo immemorabile e quando si è riaperto il portone, la si è trovata piena di piume e di feci di piccione.
Anche con le dimore nobiliari il pubblico inizia a avere familiarità. Da pochi anni è aperto Palazzo Alliata di Villafranca, e anche per la sua posizione privilegiata, nella centrale piazza Bologni, è già tappa fissa di chi visita la città. C’è una Crocifissione, che alcuni attribuiscono a Van Dyck: non sembra affatto tale; meritano invece i loro splendidi Stomer. E all’apertura di un nuovo palazzo storico, i palermitani si mettono in coda: è accaduto con Palazzo Costantino, altra meraviglia settecentesca (architetto Venanzio Marvuglia, un neoclassico che fa sempre scena, anche sul genere titanico; frescante il lezioso Gioacchino Martorana): solo per una settimana si poteva salire nel piano nobile, tutto sfasciato, ma con affaccio sui Quattro Canti. C’era una mostra di artisti di oggi (In Hoc Signo, 10–17 ottobre) e il palazzo seduceva chi è sensibile alla decadenza: stucchi caduti, decorazioni a parete scrostate, cumuli di mattonelle in maiolica.
Meglio tornare per strada: piccole realtà lavorano bene, come il circolo Arci ‘Porcorosso’, che rivitalizza la piazza della chiesa del Gesù, sempre a Ballarò, con eventi e mostre allestite dagli architetti di ‘Zisalab’. Se si entra in chiesa, nota a tutti come ‘Casa Professa’, è per vedere uno dei Novelli più belli fra quelli in città: tutti quei vecchi santi eremiti vestiti di nero, con le facce da avanzi di galera, somigliano molto ai tipi che incontri nel quartiere. Pazienza se uno di loro all’uscita intima a una ragazza di voler muzzicari le sue «minnuzzelle cavure cavure» (neanche fossero cassatelle): tanto vale farsi un’altra risata. Questa era e rimane la città di Scaldati: è un anno e mezzo che se n’è andato, ma ancora i suoi attori riescono a restituire vive atmosfere siculo-beckettiane (al Teatro Garibaldi: altro luogo recuperato da poco, ma senza calendario fisso). Il realismo, per lui come per Novelli, era tutt’altro che una prigione: anzi, era l’unica maniera possibile di elevarsi da un reale di miseria, fino alla poesia.
Agli antipodi stilistici dovremmo collocare quel gran genio che fu Giacomo Serpotta (1656–1732), che nacque poco dopo la morte di Novelli (1603-’47). Lui, da naturalista attento alle mille sfumature dell’animo umano, piano piano tradusse in stucco ogni vortice possibile gli sprizzasse dalla mente: lezione estrema di libertà. Ci voleva uno storico dell’arte americano, Donald Garstang, perché i palermitani imparassero a riscoprirlo, e ad alzare il collo, negli oratori che altre generazioni avevano abbandonato: naturalmente, a tradurre la sua monografia ci pensò Sellerio (1991). Questa è infatti una città che ha tremendo bisogno di energie che vengano o che tornino da fuori: e se Parigi attira i romantici, qui si stanziano tendenzialmente gli arditi: siano essi giovani restauratori romani, artisti comaschi o artiste polacche, storici berlinesi. Dicono di trovare qui un’infinità di macerie, pane per i loro denti, e per rimettere a posto i pezzi, servono le loro competenze; preferiscono questo deserto alla monotonia del nord – seducente di certo, ma per altri versi. Pochi investono tutto: per esempio, lo fanno Andrea Inzerillo e l’associazione Sudtitles: sono fra i principali animatori di un cinema, il De Seta, ai Cantieri Culturali della Zisa, che ha organizzato una rassegna su Ozu a ottobre. Solamente che il Comune, proprietario della sala, i soldi non li mette, neanche per pagare il proiezionista. Peccato, il regista è straordinario: sembra Piero della Francesca, di quanto è attento a spazi e volti. Per fortuna che i palermitani partecipano, e ridono se sentono un personaggio dire ‘capisco’: in giapponese suona ‘souka’.
Insomma, sembra che la città si stia svegliando dal suo torpore novecentesco, e se non si tratta di un fuoco di paglia, potrebbe anche trattarsi di un’esplosione poco premeditata. Quasi tutti i monumenti raccontati sono stati aperti nei fine settimana di ottobre grazie a una manifestazione intelligente, Le Vie dei Tesori, un festival che ormai da otto anni si è imposto all’attenzione della cittadinanza. Una serie di luoghi normalmente poco accessibili – oratori, cripte, cupole, musei, palazzi privati, e compagnia – vengono fruiti con visite guidate, condotte da giovani studenti universitari o da semplici volontari. Il pubblico, locale o di passaggio, spesso chiede ulteriori aperture, anche in altre stagioni: quest’anno i visitatori sono stati 130 mila. Sono numeri da ‘grande mostra’, ma la cifra va intesa in modo diverso, perché premia un’altra forma di fruizione del patrimonio: non conta tanto il capolavoro esposto per l’occasione, quanto il monumento che è sempre rimasto invisibile e sotto il naso. Il festival ha enormi potenzialità: con poco sforzo, potrebbe costituire un sistema di salvaguardia permanente del patrimonio palermitano – incentrato sui ciceroni, che da contenitori di informazioni dovrebbero trasformarsi in ricerca– tori. Ma per ora, rinnoviamo l’invito: al prossimo ottobre.

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