Aberrante

22 nov
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Dice il presidente Napolitano che questo scontro referendario è diventato aberrante e almeno in questo ha piena ragione.

Non si può che definire aberrante, infatti, il clima di terrore creato in questi giorni sui possibili effetti economico-finanziari di un’eventuale VITTORIA del No: quasi che il Pil, l’occupazione e l’economia domestica dei cittadini fossero dipendenti dal fatto che il Senato ha 350 o 100 componenti, eletti a suffragio universale o scelti dai consigli regionali, con le funzioni attuali o con quelle previste dalla Revisione Boschi.

Una sciocchezza aberrante, appunto, la relazione tra impianto rappresentativo (attuale o revisionato) e andamento dell’economia.

Aberrante, cioè deviante dal confronto sui contenuti veri, vale a dire appunto l’impianto di rappresentanza, il potere del Senato, il modo in cui viene formato.

Che non ha nulla a che fare con l’economia, ma se proprio volessimo vederci una relazione dovremmo allora ricordare che la forma rappresentativa vigente è quella con la quale l’Italia, per alcuni decenni, ha visto la crescita economica maggiore della sua storia; e che per contro, la Revisione Boschi potrebbe portare già fra un paio d’anni a una Camera a maggioranza grillina contro un Senato a maggioranza Pd, con un ingarbugliamento di rimandi e ritorsioni che soffocherebbe la produzione legislativa – e tutte le conseguenze del caso.

Ma, in ogni caso, non è un gioco serio né fair quello che mette in connessione andamento dell’economia e referendum. Non è infatti basato sulla qualità della modifica della Costituzione bensì sulle possibili conseguenze a breve termine del voto, cioè indebolimento o rafforzamento dell’attuale premier – e nel primo caso i famosi rischi di “instabilità”.

In altre parole, le ultime due settimane della campagna elettorale hanno deviato (aberrato) dal confronto sui contenuti della riforma per portare l’attenzione sui possibili effetti del voto in termini di “politique politicienne”, Renzi o non Renzi, elezioni anticipate o no.

Più aberrante (deviante) di così, in effetti, non si può.

Non so se questa svolta nella campagna elettorale sia stata decisa a tavolino o sia sorta quasi naturalmente, tra i fautori del Sì, come ultima leva per ribaltare i sondaggi.

Certo è però che presenta due aspetti paradossali, se non anche loro devianti (quindi aberranti).

Il primo è che per molto tempo – dalla prima Leopolda fino a poco tempo fa – la narrazione renziana era tutta fondata sul concetto di speranza, contrapposto a paura. Adesso, pur di vincere il referendum, si trasforma il voto in un rodeo del terrore.

Il secondo è che, dopo aver ammesso che la personalizzazione su se stesso del referendum era stata un errore, adesso tutto lo storytelling contro il No è basato di nuovo su Renzi, cioè sulle catastrofi economiche che potrebbero abbattersi sul Paese nel caso che il premier uscisse indebolito da questa prova.

Detto tutto questo, è probabile che questa aberrante svolta della campagna, almeno un po’, funzioni. Cioè che sposti voti.

Non sarebbe strano: l’Italia è un Paese che è sopravvissuto finora alla crisi economica iniziata nel 2008 (e alle sciagurate decisioni politiche che ne hanno accentuato gli effetti) soprattutto grazie al suo radicato e antico risparmio privato – quasi il doppio del debito pubblico – che ha a sua volta consentito quel welfare familiare che ha messo le toppe ai buchi della recessione. Se, di conseguenza, si fa balenare l’ipotesi che anche l’ultimo gommone di salvataggio rischia di essere bucato, non c’è più questione costituzionale che tenga: si pensa solo a salvare la ghirba.

In questo senso, anche la VITTORIA di Trump negli Stati Uniti è stata (controintuitivamente) un booster per il Sì, qui in Italia: l’instabilità e l’incertezza di quello che può succedere con Trump alla Casa Bianca provoca infatti una reazione conservativa, prudenziale, spaventata. Qualcosa di simile alla dinamica che aveva avvantaggiato Rajoy in Spagna pochi giorni dopo la Brexit, per capirci.

Di qui la campagna dello spavento per le possibili conseguenze politiche del No, che ha sostituito quella sul “nuovo versus vecchio”.

Anzi, l’ha quasi rovesciata, visto che l’obiettivo è comunicare che solo tenendoci il premier “vecchio” (quello attuale) non correremmo pericoli di tipo economico.

È tutta qui, con ogni evidenza, l’aberranza dello scontro in atto, il suo fottuto paradosso. A cui anche Napolitano, peraltro, nella stessa intervista aggiunge il suo penny vaticinando sullo spread, il grande babau che già è servito nel 2013 per imporci Monti (e le sue “riforme”).

È curioso: un tempo la sinistra per vincere aveva bisogno di rassicurare i mercati, adesso il Pd per vincere usa lo spauracchio dei mercati.

By the way, se il No vincesse è invece molto probabile che Renzi faccia un altro governo, proprio in nome della stabilità da preservare. O se non lui, qualcun altro del Pd, da Padoan a Grasso passando per Del Rio, senza spargimenti di sangue né spari dai tetti.

E probabilmente nei 18 mesi che restano di qui alla fine della legislatura, dopo un’eventuale sconfitta anche gli hooligan renziani si cheterebbero quanto basta a dividere un po’ meno il Paese (la distruzione di ogni residua coesione sociale in questo Paese è stato il principale frutto dei mille giorni di questo premier).

E magari, in un contesto meno aspro e divisivo, si potrebbe perfino riuscire ad avere una legge elettorale un po’ più decente e condivisa di quelle su cui l’attuale Pd ha fatto a braccio di ferro, insomma potremmo prepararci per un gioco democratico più responsabile e meno aberrante.

Scommetto che, nel caso, alla fine tutto questo calmerebbe perfino i mitici – e un po’ nevrotici – mercati.

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