Il progetto avventurista della rivincita elettorale

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di Paolo Franchi 7 gennaio 2017

Non si capisce il perché, o forse lo si capisce sin troppo bene. Ma nessuno o quasi ha il coraggio di dire apertamente una verità così evidente da sembrare quasi ovvia. E cioè che, andando avanti di questo passo, Beppe Grillo ha la vittoria in tasca, lo sa perfettamente, si comporta di conseguenza. Per convincersene, se ce ne fosse bisogno, basterebbe guardare a come il garante (si dice così) del Movimento Cinque Stelle — si tratti del nuovo regolamento interno o dell’immigrazione, del rifiuto di ogni disciplina della Rete o del giudizio di tribunali popolari cui dovrebbe sottoporsi l’informazione «di regime» — detta l’agenda politica e mediatica, costringendo gli avversari al ruolo di inseguitori tanto vocianti quanto storditi.

Le premesse c’erano tutte. È chiaro, però, che a determinare questo stato di cose hanno concorso in modo decisivo il clamoroso successo del No nel referendum costituzionale e forse più ancora il modo in cui a questo risultato si è reagito o, per meglio dire, non si è reagito, in primo luogo da parte del Pd. Matteo Renzi, che incautamente aveva voluto sin dall’inizio trasformare la prova referendaria in una sorta di giudizio di Dio sulla sua leadership, ha risposto lasciando seduta stante la guida del governo: una mossa forse obbligata politicamente, non sotto il profilo istituzionale. Non ha lasciato però la guida del Pd, e soprattutto si è guardato bene dall’aprire nel partito e attorno al partito un confronto serrato, impietoso e nel caso anche drammatico sui perché antichi e recenti della sconfitta, in vista non solo e non tanto di nuove elezioni primarie, quanto piuttosto, finalmente, di un congresso vero, di quelli che da un pezzo non si celebrano più e che servono, o dovrebbero servire, a venire dolorosamente a capo di questioni identitarie e strategiche sin qui accantonate o comunque irrisolte; nonché a stabilire se ci siano ancora, e nel caso quali siano, le motivazioni per vivere insieme sotto lo stesso tetto, e non da eterni separati in casa.

Così, caso più unico che raro da quando esistono i partiti politici, dopo una sconfitta di proporzioni colossali anche nel giudizio di Renzi («Non abbiamo perso: abbiamo straperso»), non si è nemmeno impostato qualcosa di simile a quella che nel buon tempo antico si chiamava l’analisi del voto, e si praticava, spesso con discreto profitto, dal gruppo dirigente all’ultima sezione. Può darsi che tutto ciò derivi dal semplice fatto che il Pd non è più, sempre che lo sia mai stato davvero, un partito, tradizionale o di tipo nuovo poco importa, e cioè una comunità politica fondata su valori e regole condivise, ma piuttosto un cangiante aggregato politico-elettorale di personalità, gruppi, cordate e interessi tenuto insieme da un capo indiscusso e indiscutibile, almeno fin quando vince. È, questa, un’ipotesi forse troppo drastica e radicale. Ma, se le cose in ultima analisi non stessero così, come avrebbe potuto prendere corpo l’idea, a giudizio di chi scrive a dir poco peregrina, che quel quaranta per cento di Sì alla riforma costituzionale sia tutto o quasi appannaggio del Pd renziano, e che di conseguenza, invece di perder tempo ad analizzare, ragionare, ricucire, recuperare, cambiare, lasciando a Paolo Gentiloni gli onori e gli oneri del governo, occorra andare il prima possibile a votare?

In tempi ormai lontani, quello dei fautori (all’epoca di destra) dello show down definitivo mediante ricorso immediato alle urne veniva chiamato un po’ retoricamente, a sinistra, «il partito della crisi e dell’avventura»; e noi giovanotti di belle speranze dei primi anni Settanta, nonostante la crisi economica e finanziaria che si aggravava, le bombe che esplodevano e le maggioranze silenziose (quelle vere) che minacciavano di coagularsi, su questa definizione, che ci sembrava il titolo di un romanzo di cappa e spada, facevamo parecchia ironia. A ripensarci adesso, quando non sappiamo più in quale Repubblica viviamo (la Prima se ne è andata da più di vent’anni, la Seconda ci ha lasciato con le elezioni del 2013, la Terza non è pervenuta), i maggior nostri, con tutto il loro lessico antico, avevano più di una ragione. Specie nel mettere a fuoco il rischio mortale dell’avventura. Storie vecchie? Certo, è passato quasi mezzo secolo, ci siamo fatti tutti molto, ma molto più spregiudicati. Ma l’idea che si vince o si perde tutto in una mano sola, e che, in caso di sconfitta, bisogna cercare subito la rivincita sarà magari stata buona nei parlamentini universitari del tempo che fu, ma nella politica che conta resta sbagliata e anche un po’ avventurista. È vero, Winston Churchill non azzeccò la sua previsione con il laburista Clement Attlee, che nel 1945 lo sconfisse; e Matteo Renzi, politicamente parlando, non è certo un pennuto da cortile. Ma in generale il grande (e all’occorrenza cinico) leader conservatore aveva ragione.

Non c’è niente di peggio, per i tacchini, che chiedere l’anticipo del giorno di Natale e imbandire la tavola per chi non fa mistero della sua ambizione di divorarli.

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