Tomaso Montanari, Il business insidioso dei creatori di eventi

culturale. Invece di fare di necessità virtù (per esempio riportando i cittadini nel patrimonio monumentale, spesso accessibile gratuitamente), si continuano a metter su carrozzoni espositivi a pagamento: e i nomi (e spesso solo i nomi) sono sempre quelli, da Van Gogh a Caravaggio, da Leonardo a Modigliani, passando per gli Impressionisti in tutte le salse, o per Picasso e Dalì.

A premere è un’agguerrita industria che tiene insieme società specializzate, curatori seriali, storici dell’arte compiacenti e giornali sempre più a corto di pubblicità. E gli assessori alla cultura, che, privi di ogni bussola culturale, non chiedono di meglio di una provvidenziale mostra fornita chiavi in mano.

In questo contesto non è difficile creare le condizioni ottimali per “ripulire” opere dubbie per provenienza, o per attribuzione. Ci sono notissimi curatori che espongono a raffica opere di loro stessa proprietà (pudicamente indicate come di «collezione privata»). Ce ne sono alcuni che mescolano con sapienza pochi falsi a grandi mazzi di opere autentiche. Ce ne sono altri che organizzano monografiche di grandi artisti solo per pompare opere private di dubbia attribuzione. E così via, in una sorta di grande riciclaggio dell’arte, spesso fatto a spese pubbliche, e sempre abusando della pubblica fede.

Perché quel che conta è creare un curriculum: dopo essere stato esposto in due o tre grandi mostre anche il più impresentabile “Modigliani” diventa vendibile. Specie in un mondo di collezionisti che non agisce per passione, ma per investimento: e che dunque giudica i quadri non con gli occhi della conoscenza, ma con le orecchie del sentito dire. Mario Vargas Llosa ha scritto, con giusta durezza, dell’esistenza di una “mafia dell’arte contemporanea”. La “mafia delle mostre” è forse ancora più insidiosa: perché è riuscita a creare un sistema che ci sembra ormai perfettamente naturale.

Repubblica, 15 luglio 2017

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