Contro la riduzione del numero dei parlamentari, in nome del pluralismo e del conflitto


Magistratura democratica
Leggi e istituzioni
Contro la riduzione del numero dei parlamentari, in nome del pluralismo e del conflitto *
di Alessandra Algostino
ordinario di diritto costituzionale, Università di Torino
Perché ridurre il numero dei parlamentari è contro la democrazia

1. Referendum plebiscitario e “democrazia oligarchica”

Il 29 marzo 2020[1] gli elettori saranno chiamati a pronunciarsi sul testo di legge costituzionale, recante “Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari”, approvato, in seconda votazione, nella seduta dell’11 luglio 2019, dal Senato della Repubblica, con la maggioranza assoluta dei suoi componenti, e dalla Camera dei deputati, nella seduta dell’8 ottobre 2019, con la maggioranza dei due terzi dei suoi membri[2]. Settantuno senatori (più di un quinto, dunque, dei membri di una Camera) hanno infatti sottoscritto, ai sensi dell’art. 138 Cost., la richiesta di referendum, che il 23 gennaio 2020 l’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di Cassazione ha dichiarato conforme alla norma costituzionale, accertando la legittimità del quesito.

Di seguito si ragionerà dei motivi, in punto di diritto costituzionale, che fondano la scelta per il no al referendum, ma non ci si nasconde come la contrarietà alla riduzione del numero dei parlamentari esprima una posizione assolutamente minoritaria, dovendo fronteggiare sia una campagna di marketing tanto povera, inconsistente e mistificatoria, quanto in grado di esercitare una facile e potente seduzione (la riduzione dei costi della politica; la contrazione dei numeri della casta)[3], sia gli argomenti che si situano nella prospettiva della governabilità sia le ragioni di chi non ritiene la riduzione del numero dei parlamentari esiziale, quando non la valuti positivamente, muovendo da una posizione che insiste sulla necessità che il Parlamento riacquisti un ruolo significativo[4].

L’esito del referendum appare invero scontato, sì da indurre a ragionare non solo di referendum confermativo ma altresì di referendum plebiscitario. Risulta stravolta la ratio originaria del referendum eventuale[5], che, nell’orizzonte di tutela delle minoranze e del pluralismo presente nella società, deve essere letto come strumento oppositivo, non confermativo[6].

Tale inversione del senso del referendum assume un significato viepiù pericoloso in quanto si inscrive in un processo di progressiva atrofizzazione della società, distruzione dei partiti politici quali strumenti di raccordo fra società ed istituzioni, in grado di rappresentare diverse visioni del mondo, anestetizzazione e repressione del dissenso, distrazione ed occultamento del conflitto sociale (in primis, attraverso la creazione di fittizi nemici, come, per tutti, i migranti). L’humus plebiscitario mistifica e favorisce la crescita rigogliosa di un regime oligarchico, che alimenta le diseguaglianze, nazionali e globali, segnando sempre più il passo da un orizzonte costituzionale che ragiona di «partecipazione effettiva», legando democrazia politica e democrazia sociale in un progetto di emancipazione individuale e collettiva (art. 3, c. 2, Cost.).

Ma veniamo ora al contenuto.
2. Sui numeri della rappresentanza

Il testo costituzionale prevede una drastica riduzione del numero dei parlamentari, modificando gli articoli 56 e 57 della Costituzione (artt. 1 e 2): i deputati vedrebbero una diminuzione da 630 a 400 (i 12 eletti nella circoscrizione estero scenderebbero a 8); i senatori, da 315 a 200 (i 6 eletti nella circoscrizione estero diverrebbero 4). L’art. 3 della riforma riguarda quindi l’art. 59, comma due, della Costituzione, e stabilisce che il numero complessivo dei senatori in carica nominati dal Presidente della Repubblica non possa essere superiore a cinque. Infine, nel testo è inserita una norma relativa all’applicazione della riforma stessa che prevede che essa decorra «dalla data del primo scioglimento o della prima cessazione delle Camere successiva alla data di entrata in vigore» e «comunque non prima che siano decorsi sessanta giorni dalla predetta data di entrata in vigore» (disposizione, quest’ultima, connessa alla delega al Governo di cui infra).

Alla riforma è collegata la legge 27 maggio 2019, n. 51, recante Disposizioni per assicurare l’applicabilità delle leggi elettorali indipendentemente dal numero dei parlamentari, che agli articoli 1 e 2 contiene disposizioni atte a rendere direttamente applicabile, quale che sia il numero dei parlamentari, l’attuale legge elettorale, la legge 3 novembre 2017, n. 165 (il cd. Rosatellum), in particolare attraverso la sostituzione di ogni cifra numerica fissa con l’equivalente in termini frazionari; e, all’art. 3, conferisce al Governo – in anticipo e sotto condizione[7] – una delega, da esercitarsi entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge costituzionale, per la ridefinizione dei collegi per l’elezione delle Camere, in caso di modifica del numero dei parlamentari[8].

Il cuore della riforma – la riduzione drastica del numero dei parlamentari – incide sulla rappresentanza, sulla sovranità popolare e sulla democrazia sotto diversi aspetti.

Si può iniziare da qualche numero: la riforma è destinata a mutare il rapporto fra parlamentari e cittadini. Oggi vi sono, in rapporto alla popolazione, un deputato ogni 96.000 abitanti circa e un senatore elettivo (senza considerare i senatori a vita e i senatori di diritto a vita) ogni 192.000 abitanti circa.

La formulazione originaria della Costituzione prevedeva, per la Camera dei deputati, «un deputato per ottantamila abitanti o per frazione superiore a quarantamila» (art. 56 prima della legge cost. n. 2 del 1963) e, per il Senato, «un senatore per duecentomila abitanti o per frazione superiore a centomila»[9]. La discussione in Assemblea costituente aveva registrato proposte che oscillavano tra 100.000 e 150.000 abitanti per un deputato e 120.000 e 250.000 abitanti per un senatore.

Il dato comparato, d’altro canto, mostra come il rapporto fra numero dei parlamentari e popolazione in Italia si allinei a quello di altri Paesi europei, in un range basso (la comparazione è limitata alla camera bassa, dato che molti Stati hanno o un parlamento monocamerale o, in caso di bicameralismo, una camera alta non eletta direttamente dai cittadini).

L’Italia ha una percentuale di numero dei deputati (camera bassa) ogni 100.000 abitanti pari a 1, identica al Regno Unito (1) e simile alla Francia (0.9)[10], alla Germania (0.9)[11], ai Paesi Bassi (0.9), alla Polonia (1.2), al Belgio (1.3)[12]. Non mancano Paesi che presentano una percentuale decisamente più alta, quali, per limitarsi a qualche esempio: Austria (2.1), Danimarca (3.1), Grecia (2.8), Portogallo (2.2), Svezia (3.4); per non citare Stati con popolazioni e territorio di dimensioni assai ridotte, come Slovenia (4.4), Lussemburgo (10), Malta (14.3)[13].

In caso di approvazione definitiva della riforma[14], l’Italia si troverebbe ad avere una percentuale pari a 0.7, la percentuale più bassa fra gli Stati membri dell’Unione europea (seguita dalla Spagna, con 0.8).

Ora, fermo restando che i dati devono essere letti senza misconoscere il ruolo giocato dalla loro contestualizzazione e, quindi, alla luce di variabili “istituzionali”, come la forma di governo e il sistema elettorale, così come di elementi di fatto, quali la popolazione totale o le dimensioni del territorio, quanto detto smentisce la vulgata che dipinge l’Italia come un Paese anomalo per la eccessiva numerosità dei suoi parlamentari.

Si consideri, inoltre, come, se non è affatto scontato che una uniformità dal punto di vista comparato rappresenti di per sé un valore positivo, una omogeneità comparativa può essere letta come una spia della presenza di “buoni” argomenti a sostegno di una particolare opzione.

I “buoni” argomenti nel caso specifico evocano i caratteri propri di una democrazia.
3. Vulnus alla rappresentanza e democrazia senza democrazia

Riducendo il rapporto fra cittadini e parlamentari, si incide sulla rappresentanza, sia da un punto di vista quantitativo sia da un punto di vista qualitativo[15].

Quantitativamente aumenta la distanza fra rappresentato e rappresentante: non vi sarebbe più un deputato ogni 96.000 abitanti c.a., bensì uno ogni 151.200 c.a. Il riverbero sulla qualità della rappresentanza è evidente, con una diminuzione della possibilità per il cittadino di veder eleggere un “proprio” rappresentante, abbassando il grado di potenziale identificazione del rappresentato con il rappresentante; si restringono le possibilità di scelta e si comprime l’angolo visuale della lente che specchia la realtà e la complessità della società.

Ne risulta incrementato il senso di estraneità rispetto alle istituzioni, con possibili effetti anche sulla percezione del diritto (prodotto dal parlamento) come viepiù eteronomo. In tempi, ormai lunghi anni, in cui si ragiona di crisi della rappresentanza, si procede in una direzione che, lungi dal creare le basi per una inversione di rotta, approfondisce il solco che separa società ed istituzioni.

Come anticipato in apertura, vi è chi ritiene che la riduzione del numero dei parlamentari possa essere «uno strumento, tra gli altri, per restituire senso ed efficacia alla rappresentanza e centralità al Parlamento»: «ciò che conta è che le Camere, anche ridimensionate nel numero, tornino ad essere la sede della rappresentanza politica»[16].

Ora, non si può non concordare con l’auspicio, o, meglio, la volontà di far sì che il Parlamento (ri-)acquisti un ruolo centrale, in un contesto nel quale la rappresentanza rispecchi il pluralismo sociale e costituisca un effettivo canale fra la società e le istituzioni (senza peraltro nascondersi le mistificazioni che si celano dietro la rappresentanza). Altrettanto, è indubbio che la riduzione del numero dei parlamentari non è che un tassello in un processo che vede il Parlamento sempre più depotenziato, la rappresentanza svuotata, mentre si afferma una progressiva presidenzializzazione: si ragiona di deriva postdemocratica[17], forma di Stato «liberal-populista»[18], o, ancora, per citare alcune espressioni dall’allusione immediata, di «autocrazia elettiva»[19], democrazia plebiscitaria[20] o dispotica[21], democrazia senza democrazia[22], per accedere, infine, alla qualifica “democrazia eterodiretta”, che sottolinea il carattere embedded al côté della global economic governance delle istituzioni statali.

Tuttavia, nella consapevolezza che non è la riduzione del numero dei parlamentari a infettare rapporti istituzionali rispettosi del principio di separazione ed equilibrio fra i poteri, così come la formazione di una rappresentanza che garantisca il pluralismo sociale, la riforma in discussione si presenta sia come elemento che, contestualizzato, aggrava le condizioni del malato, sia come elemento che in sé è in grado di pregiudicare il ruolo del Parlamento e la ratio della rappresentanza. In che senso un Parlamento a camere ridotte, aumenterebbe la sua centralità? E quale Parlamento verrebbe così rafforzato?

La rappresentanza, nella prospettiva di una democrazia rappresentativa, è l’elemento che traduce, se pur con una finzione, il principio di sovranità popolare, o, meglio, ne costituisce una delle principali estrinsecazioni. La sovranità popolare non vive solo nelle forme della rappresentanza, restando in particolare imprescindibile una partecipazione attiva dei cittadini, attraverso l’esercizio dei diritti e la mobilitazione dal basso[23], ma, indubbiamente, la rappresentanza ne costituisce una declinazione significativa. Attraverso il suffragio elettorale universale, l’elezione dei rappresentanti e il ruolo dei partiti politici si dà voce a tutti i cittadini e forma e organizzazione alle diverse rivendicazioni e visioni del mondo, in modo da consentire in Parlamento il loro scontro e la loro mediazione (nel senso alto che questo termine può evocare).

Una visione irenica? Certamente in parte sì, perché, se non è genetico, è quasi una pandemia: lo stato di salute della democrazia rivela non tanto la presenza di un vivace confronto tra visioni del mondo che riflettono il pluralismo – e il conflitto – sociale, quanto, molto spesso, un governo di élites[24]. Ma, se la cattiva prova o l’imperfezione della democrazia è ragione per una lettura realistica e demistificatrice, non lo è per un atteggiamento remissivo di fronte allo status quo: la rappresentanza può non essere il mezzo attraverso il quale si legittima il governo delle élites ma essere lo strumento per consentire l’espressione della società e dei conflitti che la agitano, esercitando un ruolo contro-egemonico.

In questa prospettiva si può immaginare di estendere all’alterazione della rappresentanza prodotta dalla diminuzione del numero dei parlamentari, le affermazioni della Corte costituzionale a proposito dell’uguaglianza del voto: non si può produrre «una eccessiva divaricazione tra la composizione dell’organo della rappresentanza politica, che è al centro del sistema di democrazia rappresentativa e della forma di governo parlamentare prefigurati dalla Costituzione, e la volontà dei cittadini espressa attraverso il voto, che costituisce il principale strumento di manifestazione della sovranità popolare»[25].

Come si evince anche dal passaggio citato dalla pronuncia della Consulta, il vulnus riguarda la democrazia rappresentativa, il principio di sovranità popolare, così come l’incidenza sulla forma di governo e, in specie, sull’organo parlamentare. Minando la rappresentanza, nel caso di specie riducendone gli spazi, in particolare quelli delle minoranze, si anestetizza la dialettica parlamentare, come espressione delle differenti rivendicazioni che percorrono la società, depotenziando e indebolendo il Parlamento. Sempre che del Parlamento, come si dirà a breve, si intenda valorizzare il suo essere – riprendendo le parole del giudice costituzionale – «organo della rappresentanza politica» e, attraverso questa, autore di scelte attraverso la mediazione politica, e non mero organo di ratifica o di decisione in stile maggioritario.

Non privi di rilievo, inoltre, sono gli “effetti collaterali” che discendono da una deminutio della rappresentatività sugli altri organi: basti pensare all’elezione del Presidente della Repubblica o alla votazione riguardante i giudici costituzionali[26]. Ad essere compromessi sono i complessi congegni, equilibri e garanzie sui quali si regge una democrazia costituzionale.
4. Camere ridotte e centralità del Parlamento

A fronte di quanto osservato sta – come anticipato – la diffusa osservazione che un Parlamento dai numeri più contenuti sia un Parlamento più efficiente ed efficace e, dunque, più forte ed autorevole[27]. Si può obiettare rilevando come, ammesso e non concesso, che la riduzione dei componenti determini una maggior efficienza e compattezza dell’organo[28], questo presuppone l’adesione ad una specifica concezione: quella che ritiene che forza e autorevolezza discendano in primis dall’efficienza, dalla “governabilità”, assunta come un valore positivo, a prescindere dal suo rapporto con la rappresentanza, ed anche quando comporta un sacrificio in termini di rappresentanza[29]. È una posizione riconducibile alle versioni maggioritarie della democrazia, in opposizione alla visione della democrazia, come eminentemente luogo della rappresentanza e di espressione del conflitto. Non la discussione, ma la decisione; non la rappresentanza del pluralismo, ma un vincitore, che, allontanandosi dalla tradizione del costituzionalismo, si vuole sempre più legibus solutus.

La governabilità può essere un valore, ma in sé non è necessariamente democratica[30], anzi, nella misura in cui segna il distacco rispetto alla rappresentanza, ovvero sacrifica pluralismo (reale o potenziale), costituisce rispetto all’ideale democratico una regressione[31]. Ancora: quando si ragiona di efficienza, sorge ineludibile un interrogativo: efficienza in nome di che cosa? A favore di chi? Si palesa qui la connessione fra governabilità ed esigenze del mercato, donde pare che il fine non sia tanto costruire un Parlamento forte in quanto sede di discussione politica, di compromesso fra differenti visioni del mondo, ma in quanto organo efficiente nel ratificare decisioni assunte altrove, nella nebulosa della global economic governance, e, ça va sans dire, ancillare rispetto al Governo. Emerge chiaro il parallelismo, per non ragionare di mera traduzione, con le tendenze egemoniche delle élites del finanzcapitalismo[32]; nella società, così come nelle relazioni industriali, la negazione del conflitto segna la vittoria di una classe[33].

La riduzione del numero dei parlamentari, dunque, lungi dal rilanciare il ruolo del Parlamento, frappone nuovi ostacoli alla (ri-)costruzione della sua centralità e al suo inveramento quale organo, attraverso la mediazione della rappresentanza, di espressione dei cittadini, nella loro pluralità. Se pur, riprendendo quanto osservato ante, ragionare di rappresentanza come specchio della realtà sociale disegna un’immagine idilliaca, lontana dalla realizzazione storica, della democrazia, stante che facilmente la rappresentanza degrada in rappresentazione[34] e il medium rappresentativo si risolve in una finzione, resta che, nella incompiutezza e imperfezione della democrazia[35], la scelta di ridurre il numero dei parlamentari segna comunque una regressione.

Occorre immaginare altre soluzioni: riforme in tema di attribuzioni e di poteri in grado di restituire al Parlamento un ruolo di indirizzo e controllo nei confronti del Governo, magari con un incisivo statuto delle opposizioni; e, nel contempo, restaurare la fiducia dei cittadini nell’organo e nei suoi componenti, in primis, attraverso una legge elettorale proporzionale (un proporzionale puro e senza soglie di sbarramento) [36]. Si può immaginare, forse, di differenziare la rappresentatività delle due camere, senza con questo peraltro demonizzare, cedendo alle sirene dell’efficienza e della velocità, la capacità di riflessione e di ponderazione degli interessi che un bicameralismo perfetto, quantomeno nelle funzioni, e pur nella consapevolezza che si tratta quasi di un unicum nel panorama comparato, assicura.

Per rivitalizzare il Parlamento occorrono interventi strutturali, capaci di innescare un circolo virtuoso nel sistema politico, favorendo la rinascita di una forma partito, ovvero di una organizzazione collettiva che ne eserciti le funzioni, che sappia veicolare le istanze dalla società alle istituzioni, esercitando, «con metodo democratico», quel ruolo di intermediazione che consente ai cittadini di «concorrere… a determinare la politica nazionale» (art. 49 Cost.).

Incidenter: se di riduzione si vuol ragionare, ben potrebbe essa riguardare, anche in modo più incisivo, la “riserva” di parlamentari alla circoscrizione estero, indice di una concezione ius sanguinis della cittadinanza, la quale, in presenza di una immigrazione stabile, rivela sempre più la sua portata escludente, in contraddizione con l’immagine di una «comunità di diritti e di doveri» che «accoglie e accomuna tutti coloro che, quasi in una seconda cittadinanza, ricevono diritti e restituiscono doveri»[37] e in violazione del nucleo del principio democratico come identità di governanti e governati.
5. La variabile della legge elettorale e il contesto delle riforme in discussione

L’incidenza della riduzione del numero dei parlamentari sulla rappresentanza, sulla sovranità popolare, sul ruolo del Parlamento e sulla democrazia, viene ad essere ulteriormente aggravata se si inserisce la riforma, oltre che nel contesto già richiamato di crisi della rappresentanza e del Parlamento, nel quadro delle riforme in discussione, quali quelle riguardanti la legge elettorale, l’art. 71 Cost., il regionalismo differenziato. Una precisazione, peraltro, è doverosa: senza dubbio rispetto alle riforme omnibus del 2006 e del 2016, per limitarsi a progetti giunti sino allo stadio di delibere costituzionali sottoposte al voto popolare (e da esso respinte), la riforma che qui si commenta metodologicamente segue una strada corretta, in quanto possiede un oggetto specifico ed omogeneo. Ciò detto, il commentatore non può non valutare il progetto alla luce del contesto socio-politico ed in relazione con le altre riforme in discussione.

Innanzitutto, come anticipato, il riferimento è alla legge elettorale, quale legge che, oltre a porsi come cinghia di trasmissione fra sistema politico e forma di governo[38], fra politica e istituzioni, connota la rappresentanza e, di conseguenza, la democrazia[39]. Le «leggi che stabiliscono il diritto di voto», che disciplinano «come, da parte di chi, a chi e su che cosa devono essere dati i suffragi»[40], costituiscono da sempre un elemento fondamentale delle teorie sulla democrazia rappresentativa ed oggi sono un indicatore, ed un fattore, del carattere più o meno maggioritario o d’investitura della democrazia.

In primo luogo, si sottolinea, quanto alla citata legge delega per ridisegnare i collegi elettorali, la delicatezza di un passaggio tutt’altro che meramente tecnico, bensì, come la storia insegna, suscettibile di influenzare pesantemente l’esito delle elezioni.

In secondo luogo, si può esprimere sollievo alla luce della recente dichiarazione di inammissibilità del referendum volto a trasformare l’attuale sistema elettorale, attraverso l’eliminazione della quota proporzionale al fine di rendere il sistema elettorale interamente maggioritario. La Corte costituzionale il 16 gennaio 2020 ha dichiarato non ammissibile la richiesta referendaria avanzata da otto Consigli regionali a trazione leghista (Veneto, Piemonte, Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Sardegna, Abruzzo, Basilicata, Liguria), motivando in merito all’«assorbente ragione dell’eccessiva manipolatività del quesito referendario nella parte che riguarda la delega al Governo, ovvero proprio nella parte che, secondo le intenzioni dei promotori, avrebbe consentito l’auto-applicatività della “normativa di risulta”»[41], la quale ultima è ritenuta da costante giurisprudenza costituzionale condizione di ammissibilità dei referendum in materia elettorale.

In terzo luogo, è necessario riflettere sulla direzione della riforma dell’attuale Rosatellum (legge n. 165 del 2017), che, al momento in cui si scrive, a seconda degli equilibri di governo[42], ondeggia fra un sistema proporzionale con alta soglia di sbarramento e fascinazioni di tipo maggioritario.

Senza approfondire nel presente contributo il discorso sulla legge elettorale, si precisa che occorrerebbe, nell’ottica di una riduzione del danno, per bilanciare almeno in parte il vulnus arrecato alla rappresentanza (con la precisazione che in ogni caso non è sufficiente a sanare la ferita inferta), modificare la legge elettorale nel senso di una formula proporzionale pura (senza soglia di sbarramento)[43]. Non si può, inoltre, dimenticare, che, anche ove si procedesse in tal senso – il che, invero, non pare un’ipotesi al momento realistica – resterebbe che il numero dei componenti delle Camere, se oggetto di riduzione, necessita per un eventuale ripensamento di una revisione costituzionale, mentre la modifica della legge elettorale è un obiettivo più facilmente perseguibile.

Quanto alle riforme costituzionali in discussione, pur limitandosi in questa sede ad un cenno, non si può non considerare l’innesto, attraverso la modifica dell’art. 71 della Costituzione, di nuove forme di democrazia riconducibili alla democrazia diretta, con la previsione dell’iniziativa legislativa popolare “rafforzata”, con il connesso referendum. Senza approfondire qui i rischi plebiscitari che gli strumenti previsti nel disegno di legge costituzionale recante “Disposizioni in materia di iniziativa legislativa popolare e di referendum” (A.S. 1089)[44] presentano e la necessità di intervenire quantomeno sui quorum, per evitare l’istituzionalizzazione di una democrazia diretta “oligarchica” (ovvero lo stesso ossimoro che colpisce la piattaforma Rousseau del Movimento Cinque Stelle), non si può non rilevare come il contemporaneo favor per l’appello al popolo e la riduzione del numero dei parlamentari convergano nel mortificare il ruolo del Parlamento. Gli istituti di democrazia diretta e partecipativa possono arricchire la democrazia rappresentativa, sempre che vi siano le condizioni per evitare che divengano strumenti tout court contro il circuito politico-rappresentativo, che si traducano in pronunciamenti plebiscitari, che sponsorizzino una partecipazione oligarchica; il loro inserimento in un quadro che tende a svilire la rappresentanza, concretizza, invece, i rischi prospettati.

Infine, non si può omettere un riferimento alle proposte in tema di regionalismo differenziato. Da un lato, esse privano il parlamento nazionale di competenze significative in quanto trasferiscono poteri alle regioni (ad alcune regioni) e minano l’immagine – e la sostanza – di un Parlamento che legifera sulla base, ed in garanzia, di un principio di eguaglianza (nazionale). Dall’altro lato, la diseguaglianza che esse veicolano, e che mirano ad istituzionalizzare, appartiene allo stesso idem sentire che ragiona in termini di efficienza, di logiche meritocratiche mistificatrici e di creazione di “governo dei forti”, con buona pace della solidarietà di cui all’art. 2 Cost. e, soprattutto, del progetto di eguaglianza sostanziale e di emancipazione sociale, di cui all’art 3, c. 2, Cost.
6. Dissenso, conflitto e democrazia

La riduzione del numero dei parlamentari, restringendo gli spazi della rappresentanza, esclude potenzialmente dalla sfera pubblica, voci – plausibilmente quelle fuori dal coro – di cittadini: tende ad espellere le minoranze (specie se correlata ad un sistema elettorale non integralmente proporzionale) e incide sulla democrazia come espressione del pluralismo e del conflitto[45].

L’opzione per la declinazione rappresentativa della democrazia è strettamente connessa al riconoscimento del pluralismo, della complessità della società, della centralità della discussione e del compromesso politico; è coerente con il contemporaneo riconoscimento del principio di maggioranza e della tutela delle minoranze[46].

La riforma in esame, riducendo gli spazi della rappresentanza, scardina presupposti ineliminabili della democrazia – rispetto ai quali la rappresentanza si pone come strumento, se pur imperfetto e non sufficiente: il pluralismo e il conflitto.

Si afferma una volta di più, con l’opzione “Camere mini”, una versione maggioritaria e decisionista della democrazia (posto che così procedendo possa ancora ragionarsi di democrazia…), abdicando alla sua esistenza come garanzia del pluralismo delle voci, anche, se non soprattutto, di quelle minoritarie e dissonanti.

La riduzione del numero dei parlamentari è un tassello di una trasformazione della forma di Stato in senso autoritario, tendente ad espellere[47] e a privare di agibilità politica, quando non a punire (il riferimento è ai decreti sicurezza)[48], il dissenso. La diseguaglianza sociale ed economica[49] tracima nella sfera politica, segnando la distanza rispetto al sogno – scritto nelle costituzioni novecentesche perché divenisse realtà – di un’emancipazione, insieme, sociale, politica ed economica.

La riforma costituzionale oggetto di referendum non è, certo, che un piccolo passo, ma occorre essere consapevoli della direzione nella quale essa si inserisce: un regime che marginalizza e criminalizza il disagio sociale, reprime il dissenso, mira a costruire un consenso plebiscitario, abbandona il lavoratore alla mercé di un capitalismo sempre più aggressivo, esternalizza (con una politica criminale) le frontiere, veicolando diseguaglianza e sudditanza.

Da fine marzo le Camere (quasi sicuramente) saranno ridotte – come detto in apertura, il referendum si annuncia plebiscitario – ma non per questo è meno rilevante un “no”: stare, ancora una volta «dalla parte del torto»[50]; muovere dalla «tradizione degli oppressi» che «ci insegna che lo “stato di emergenza” in cui viviamo è la regola»[51], per ribaltarla; pensare, per restare all’orizzonte costituzionale, non tanto a modificare la Costituzione, quanto ad attuarla, a partire dal suo cuore, l’art. 3, c. 2, l’emancipazione e la giustizia sociale.

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