A margine delle chiacchiere televisive sulla scissione di Livorno.

Di Nadia Urbinati
Il Partito Comunista Italiano fu un baluardo della democrazia costituzionale, difendendola quando la DC al governo non avrebbe escluso una svolta autoritaria, negli anni durissimi della Guerra fredda, anni nei quali la democrazia fu un gioco poco limpido in molti paesi del mondo occidentale, e soprattutto nel nostro, dove non si pratico’ mai la regola aurea dell’alternanza e un partito con i suoi alleati, di destra o di sinistra, resto’ al governo per mezzo secolo senza interruzione (con effetti di corrutela prevedibili e necessari).
Il PCI difese le istituzioni democratiche. Lo si vide nel 1948 con l’attentato a Togliatti, con il Governo Tambroni nel 1960, ma lo si vide ancora nel 1977 e nel 1978 (rivolta dell’autonomia operaia con attacco frontale molto simbolico a Bologna e il rapimento Moro che volle dire seppellimento del progetto di avvicinamento del PCI al governo).
Questo il grande paradosso che si mostrò, soprattutto negli anni del terrorismo che subi’ un’impennata a partire dal ’77: il PCI non ammise ufficialmente mai di essere compiutamente un partito socialdemocratico (mentre lo era gia’ dovunque amministrava; e soprattutto lo era proprio quando volle fare dell’Emilia un modello di governo di societa’). Tuttavia, difese fino all’ultimo le istituzioni della democrazia parlamentare, a costo di perire nell’impatto. Venne sciolto nel 1991 a Rimini (ironia della storia, la morte fu annunciara a Bologna dove aveva ricevuto l’assalto nel ’77) dopo aver difeso strenuamente le istituzioni democratiche (dal terrorismo e dalla sfigurazione clientelare dei partiti di governo) che aveva contribuito a creare.
La funzione del PCI fu quella di aver contribuito a edificare e a consolidare la democrazia in un paese che ne era geneticamente a digiuno.
La sua fu a tutti gli effetti una funzione fondativa e costituente; una funzione a termine, come tutti i processi fondativi e costituenti, ma che infuse in quelle origini gracili il senso civico del rispetto del patto costituzionale e dell’accettazione dell’avversario — educando alla democrazia, appunto.
Coloro che lo vollero sepellire in tanta fretta e furia non tennero conto del fatto che gli educati possono diseducarsi.
Il regime Berlusconi ha diseducato il senso civico e politico di milioni di italiani e soprattutto dei politici: ha diseducato i cittadini prima con la televisione commerciale e poi con la politica plebiscitaria e anche patrimonialista (che continua ancora, come l’aiuto governativo a Mediaset di questi giorni dimostra). Ha diseducato alla politica come potere di cittadinanza e di senso delle istituzioni.
E gli effetti di quella opera di erosione, civica e civile, si vedono proprio in questi giorni di rinato anti-comunismo televisivo. Il centrista Renzi che come Berlusconi nel 1994 addita al male del comunismo totalitario come problema causato dalla nascita del PCI (un “male” che, comunque, venne sepolto proprio dentro l’Assemblea Costituente) non fa che continuare sulla falsariga di Forza Italia, la cui logica ha avuto una funzione egemonica deleteria, radicando un’idea di politica come malcostume, una foga antipartitica gia’ populista, un senso della politica come spettacolo e Colosseo che piace ancora tanto agli showmen politici. Ha messo in circolo con successo l’idea che il potere sia una questione di “possesso” di chi lo esercita nelle istituzioni, con i cittadini relegati alla funzione di pubblico giudicante e vociante.

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