Acqua quotata in borsa: il tardo capitalismo abbatte l’ultimo tabù

L’acqua è quotata in borsa. Da lunedì 9 dicembre è possibile scambiare un future legato alle variazioni di prezzo sull’acqua in California, il Nasdaq Veles California Water Index (NQH2O)
di Dario De Marco

L’acqua viene quotata in borsa. Una di quelle cose che fanno orrore al primo impatto; che poi cercando di capire meglio la questione sembrano meno strane e schifose; e che in fondo in fondo si rivelano per essere davvero assurde e raccapriccianti come apparivano. Anzi, peggio.

Da lunedì scorso, notizia ampiamente preannunciata nei mesi passati, è possibile scambiare un future legato alle variazioni di prezzo sull’acqua in California. Lo strumento finanziario è stato creato dal CME group in collaborazione con il Nasdaq, e ha un nome che mette i brividi nella sua schiettezza: NQH2O.

Il bello è che i giornali economici e i siti d’informazione specializzati danno la news tutti giulivi: ehi ragazzi c’è una nuova commodity in città, da oggi potete speculare sull’acqua! Per la verità, poi, anche i più accaniti si danno una regolata: CNN Business dice “Suona distopico? Forse” (forse); IlSole-24Ore parla di ultimo tabù abbattuto dal capitalismo. Grazie eh, 2020, ci mancava solo questa: dopo averci accollato una pandemia, e tolto Sepulveda, Maradona e Paolo Rossi, chiudiamo col botto, con una bella ciliegina sulla merda.
Questa è l’acqua

Banalità assortite in tema: siamo fatti al 70% di acqua, l’acqua per Talete ovvero il primo filosofo-scienziato occidentale era l’elemento principale dell’universo, l’acqua è la prima cosa che andiamo a cercare su pianeti e satelliti nelle esplorazioni spaziali.

Più di recente, termini e concetti volgono al distopico: l’acqua come “oro blu”, Le guerre dell’acqua (libro di Vandana Shiva del 2003, e ispirato a una profezia del presidente della Banca mondiale addirittura del 1995), le previsioni secondo cui 2 persone su 3 andranno incontro a privazioni di acqua nel 2025 (cioè dopodomani).

La causa prima, il quadro di riferimento, come al solito, è il cambiamento climatico. Ma anche quell’altra tendenza di lungo periodo, più direttamente umana, che tutto porta a privatizzare, economicizzare, finanziarizzare. Dalle speculazioni finanziarie sul prezzo del grano sono nate, almeno come scintilla scatenante, molte primavere arabe. Dalla terribile siccità del 2006-2011 si è originata, stavolta come onda lunga, la guerra civile siriana. La spartizione dell’acqua dei fiumi sta alla base dei ricorrenti massacri nel Punjab, comodamente rubricati come conflitti etnici. E ancora il Nilo con i turbolenti stati africani che attraversa, il Tigri e l’Eufrate le cui sorgenti sono controllate dalla Turchia, la valle del Giordano e l’annosa questione palestinese: anche a livello simbolico, sono in ballo i nomi fondativi delle civiltà umane.
Tra l’altro: siccità e carestie, e conseguenti guerre, generano migranti, masse enormi di disperati che si muovono tra i paesi e i continenti. Quindi, anche per un mero calcolo egoistico – ammesso e non concesso che apparteniamo a quel 33% di umanità a cui non mancherà l’acqua – siamo lo stesso coinvolti.
Acqua bene pubblico?

Ci vorrebbe una risposta politica forte, e c’è stata. Peccato che solo a parole. Nel 2010, dieci anni fa, l’Assemblea generale dell’Onu ha posto l’accesso all’acqua potabile, e a servizi igienico-sanitari di base, tra i diritti umani universali e fondamentali. Anno dopo anno, l’Unesco pubblica un Rapporto sullo sviluppo idrico per conto dell’Agenzia dell’Onu sull’Acqua (UN-Water) in cui si leggono frasi come: “I cambiamenti climatici influenzeranno la disponibilità, la qualità e la quantità di acqua necessaria per i bisogni umani di base, compromettendo così il godimento dei diritti fondamentali all’acqua potabile e alle strutture igienico-sanitarie per miliardi di persone” e si invitano gli Stati ad “assumere impegni più concreti”.
In Italia, nel 2011 si è svolto un referendum (per dire: l’unico negli ultimi 25 anni che ha raggiunto il quorum) volto a porre un freno alla privatizzazione della gestione delle risorse idriche: l’acqua è sempre stata bene pubblico, e sempre lo sarà (oddio, speriamo), ma quello che si voleva impedire è l’estrazione di profitto dalla distribuzione; i limiti però sono stati interpretati in maniera molto blanda, per cui di fatto quel voto non ha cambiato nulla.
I futures come soluzione

La soluzione, allora, potrebbe arrivare dal privato, dalla famosa mano invisibile del mercato. Stiamo scherzando? Ovviamente sì, ma ci sono davvero quelli che ci credono. Seguitemi perché le cose non sono come sembrano: sono peggio.
Intanto: bel paradosso, ma forse no, che i futures sull’acqua siano stati lanciati proprio in California, terra devastata da incendi e siccità, intervallati da brevi periodi molto piovosi; e inoltre caratterizzata da una grandissima variabilità da zona a zona. La maggior parte dell’acqua in California serve per l’agricoltura, e la situazione va peggiorando da entrambi i lati, perché oltre al riscaldamento globale, si aggiunge il fatto che negli ultimi tempi le coltivazioni più redditizie, e quindi che vanno per la maggiore, sono quelle di mandorle e pistacchi, le quali – come banane e avocado in altre zone del mondo – richiedono una quantità di acqua spropositata.

Nei periodi di scarsità di risorse idriche, i coltivatori non hanno altra scelta che comprare acqua da chi ne ha in eccesso, o l’ha conservata. Questo naturalmente determina prezzi che schizzano in alto e incertezze sulla possibilità stessa di procurarsi il bene. Finora questi scambi avvenivano a livello di cosiddetto spot market, con poche regolamentazioni e controlli, senza standardizzazioni e sicurezze.

Adesso, sostengono i creatori del future, si potrà farlo in maniera certa e controllata. I futures, in effetti, sono strumenti finanziari inventati proprio per assicurarsi contro le fluttuazioni di prezzo: sono nati per l’appunto sul mercato dei beni alimentari. Facciamo l’esempio: il contadino produce grano, il mulino lo compra per fare farina. Se l’annata è buona, il raccolto è abbondante e il prezzo è basso, va bene al mulino e male all’agricoltore. Se l’annata va male, il prezzo è alto, conviene al venditore e resta fregato l’acquirente. Il future cosa fa? È un contratto con cui ci si promette di scambiare un bene futuro a un prezzo fissato adesso: siccome oggi nessuno sa come andrà il prossimo raccolto, contadino e mugnaio si metteranno d’accordo su una cifra teorica, media, equa. E tutti contenti. Altrettanto, in teoria, si potrebbe fare con l’acqua.

Tutto bene, quindi? Il future è la salvezza? Beh, più o meno. Il fatto è che questo, come gli altri strumenti finanziari, è presto diventato un mero nome, un pezzo di carta, una riga di codice: senza più molto legame con il cosiddetto “bene sottostante”. Questo accade perché raramente, anzi diciamo mai, chi compra con future è il mugnaio, che quindi a fine anno va dal contadino e dice tieni i soldi, dammi il grano. Questione tecnica, facciamocela spiegare dalle fonti dirette. Leggiamo sul sito della Borsa italiana:

Nella maggior parte dei casi i future non si concludono con la consegna fisica del bene sottostante, infatti gli operatori preferiscono “chiudere” le posizioni aperte rivendendo un contratto future precedentemente acquistato o acquistando il contratto future precedentemente venduto; ciò consente di risparmiare sui costi di consegna.

Insomma il contratto per assicurarsi contro le variazioni nel prezzo dell’acqua, diventerà il modo per scommettere sulle variazioni nel prezzo dell’acqua. Inoltre, come succede sempre con i prodotti finanziari, questi si impacchettano e mischiano tra loro, creando degli accrocchi poco trasparenti, fatti apposta per confondere. Sempre la Borsa:

L’attività sottostante (underlying asset) di un future può essere un’azione, un’obbligazione, un tasso di interesse a lungo termine, un tasso a breve, una valuta, un indice azionario o una merce (commodity).

Okay, sto semplificando e facendo confusione, probabilmente, ma se pensate che sia io a non capirci nulla, vi dico di andare da chi ci capisce qualcosa, tipo i geni dell’economia e i maghi della finanza che sono riusciti a prevedere e a evitare una crisi disastrosa come poteva essere quella del 2008. Come dite, non è andata così?
Acqua bene comune

L’acqua è un bene scarso, e mentre a noi la parola scarsità mette tristezza, agli economisti fa brillare gli occhi, perché bene scarso vuol dire bene economico: è la sua definizione, uno degli elementi fondamentali. Il fatto è che, restando nella terminologia tecnica, l’acqua è anche un bene che ha una curva anelastica, come tutti i beni primari. All’aumentare del prezzo, cioè, da un certo punto in poi la richiesta sarà sempre la stessa, non diminuirà più.

Basterebbe questo, per decidere di sottrarre l’acqua alle logiche di mercato. Come? In un modo semplice, quanto radicale. Come ha detto Marco Bersani, di Attac Italia e del Forum italiano dei movimenti per l’acqua, dichiarandola bene comune, che è qualcosa di diverso – qualcosa di meno, da un certo punto di vista, ma da un altro di più – rispetto al bene pubblico.
Ma qualcosa mi dice che la strada intrapresa sarà differente. D’altra parte, ci stiamo affidando a due delle maggiori certezze dei nostri tempi: il riscaldamento globale e la speculazione finanziaria. Cosa potrà mai andare storto?

Ti potrebbe interessare anche...