Autonomia delle regioni del Nord, l’allarme dei medici: così muore il Servizio sanitario nazionale

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Gli allarmi arrivano dal sindacato dei medici, dalla Cgil e pure da Federspecializzandi. Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna chiedono autonomia dalla spesa all’equivalenza terapeutica e pure sui percorsi di specializzazione dei giovani medici
(Alberto PIZZOLI / AFP)

Si chiama “autonomia differenziata”. E secondo medici e sindacati rischia di rappresentare la “pietra tombale” del Servizio sanitario nazionale come oggi lo conosciamo. L’argomento non rientra tra gli slogan elettorali di governo. Anche perché il dossier delle autonomie, per il momento, è confinato ai soli tavoli di discussione tra i presidenti di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, che hanno avviato il percorso, e il ministero agli Affari regionali in mano alla leghista Erika Stefani. Ma mentre altre regioni si accodano (la richiesta è già arrivata da Piemonte, Liguria, Toscana, Umbria e Marche), dai sindacati a Confindustria, dalla Svimez alle associazioni di medici e specializzandi, arrivano diversi allarmi. Soprattutto ora che si avvicina la data dell’intesa tra il governo e le tre regioni capofila.

«Non c’è nessuno slittamento. I testi sono pronti», ha detto la ministra Stefani dopo che si era parlato di un rinvio del consiglio dei ministri previsto per il 14 febbraio sul tema, visto che – dopo la Tav – anche sull’autonomia Cinque Stelle e Lega non avrebbero ancora trovato la quadra. Ma, soprattutto dopo la firma dell’intesa finanziaria tra Regione Veneto e ministero dell’Economia, gli allarmi non si placano. In particolare in merito alle trasformazioni prospettate per la sanità, visto che le tre regioni chiedono autonomia non solo in materia di spesa, ma anche di prestazioni, specializzazioni e formazione medica, e pure sulla possibilità di scelta e adozione dei farmaci.

L’articolo 116 della Costituzione attribuisce già alle regioni alcune competenze statali in materia di salute. Ma con l’autonomia differenziata, da quello che si legge nelle bozze di intesa, cadrebbero molti altri vincoli. A partire dalla gestione spesa: il governo propone che le regioni stabiliscano i propri Livelli essenziali di assistenza (Lea) e le proprie tariffe, pagando il tutto con i propri soldi, con riferimento al costo storico delle funzioni e attraverso la compartecipazione delle imposte, anche in difformità rispetto ai vincoli di bilancio validi per le altre regioni. Il Sindacato medici italiani ha già chiesto di rinviare il voto in Parlamento, sostenendo che così facendo il Servizio sanitario nazionale abbandonerà il suo carattere omogeneo, trasformandosi in una “somma di servizi sanitari regionali”. E anche la Cgil – che sul tema, insieme a Cisl e Uil, ha chiesto un confronto con governo e regioni – si dice contraria, indicando come priorità la definizione di uguali livelli di assistenza per tutte le regioni, vista la disparità esistente oggi, soprattutto tra Nord e Sud. Altrimenti, spiega il segretario Maurizio Landini, «così facendo si rischiano di acuire diseguaglianze e ingiustizie sociali».
La Verità Di Baldini


Dati elaborati da Cgil

Veneto e Lombardia a trazione leghista, due eccellenze sanitarie nel panorama nazionale con 209 e 198 punti sui Lea rispetto ai 124 della Campania, ultima in classifica, sono le due regioni che più premono per accelerare sui tempi, dopo aver incassato l’approvazione dei referendum tenuti nel 2017.

Le novità in ambito sanitario previste nelle bozze riguardano anche la formazione dei medici, in modo da poter decidere sulle assunzioni e rispondere alla carenza di personale che oggi affigge gli ospedali. Il Veneto avrà maggiore autonomia per rimuovere i vincoli di spesa sul personale sanitario, gestirà la programmazione dell’accesso alle scuole scuole di specializzazione medica, anche tramite accordi con le università, e potrà redigere percorsi alternativi alle scuole, oltre che utilizzare medici in possesso della sola laurea per garantire i servizi. La regione guidata da Luca Zaia prevede pure maggiori competenze sul ticket – con la possibilità di abolire la quota fissa – e sulla valutazione dell’equivalenza terapeutica dei farmaci con principi attivi diversi. Che significa che, in assenza di un pronunciamento dell’Aifa, il Veneto potrà scegliere di adottare un farmaco anziché un altro. E lo stesso è previsto nei progetti di Lombardia ed Emilia Romagna, ciascuna delle quali ha programmato anche percorsi di formazione specialistica alternativi per i nuovi medici nelle aziende sanitarie e ospedaliere.

«Da un lato, ci saranno specializzandi inseriti in una rete formativa con standard uniformi su tutto il territorio nazionale; dall’altro lato, ci saranno specializzandi che, verosimilmente bypassando il concorso nazionale, verranno inseriti in un percorso gestito dalle singole Regioni con lo scopo di avere manodopera da impiegare nelle strutture in carenza di personale», spiegano da Federspecializzandi. Anziché intervenire sulla carenza di camici bianchi aumentando i contratti di formazione a livello nazionale, «si demanda totalmente alle Regioni la responsabilità di risolvere le attuali carenze di sistema», spiegano.

Ma la strada per l’autonomia sanitaria potrebbe essere più lunga di quanto sembri, spostandosi addirittura a dopo le europee. Perché, oltre alla Tav, nel governo sul fronte delle autonomie è in atto lo scontro tra la Lega nordista e i Cinque Stelle sudisti. E in vista dell’appuntamento elettorale europeo, anche Salvini sarebbe tentato di rimandare il dossier, per confermare l’appeal della Carroccio come partito nazionale, puntando a rafforzare proprio la sua presenza al Sud. Dove intanto, tra corsi e ricorsi storici, il governatore campano Vincenzo De Luca è già sul piede di guerra: annuncia il ricorso alla Corte Costituzionale e parla di «un nuovo Risorgimento se vanno avanti spinte destinate a disgregare l’unità del Paese», chiedendo a tutte le regioni del Mezzogiorno di fare fronte comune contro i progetti del ricco Nord.

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