Castellina: «Il Partito Democratico è l’aborto del Pci»

INTERVISTE di Giulia Merlo 8 lug 2016 20:0337420_884_low
Il Partito comunista ha realizzato le cose migliori per questo paese. Ora c’è la morte: le periferie prima erano dense di vita collettiva e politica, oggi sono luoghi dove non c’è nulla
«Sinistra significa cercare ciò che nessuna rivoluzione è ancora riuscita a ottenere: coniugare l’uguaglianza con la libertà. Un obiettivo non ancora raggiunto, ma non vedo perché dovremmo rinunciare». E Luciana Castellina rinunciare non intende di certo. Figlia della generazione “giovane e bella” che ha visto sbocciare l’Italia repubblicana, è stata una protagonista della sinistra in tutte le sue forme: da politica come dirigente del Partito comunista, da intellettuale quando fondò Il manifesto, uscendo traumaticamente da quello che ancora oggi considera il suo partito, e ora da memoria storica, che guarda con disincanto dalla sua casa di Roma le macerie di una politica da rifondare.

Cominciamo dall’oggi. Guardando alla sinistra italiana, nel Partito Democratico di oggi vede una qualche eredità del suo Partito comunista?
Il Partito Democratico non è l’eredità del Pci, è l’aborto. Pur con tutta la buona volontà, non vedo nulla di quella storia. Certo, quando giro per l’Italia incontro tanti bravi compagni, che sono rimasti uniti per quello che loro considerano ancora “il partito”, ma io mi chiedo quale partito. Il Pd non esiste come struttura partitica viva nel Paese.

Quella del Pci è una tradizione che è andata dispersa, quindi?
Il Partito comunista italiano è un cadavere che giace abbandonato. Con la costituzione del Pd è stata spezzata una storia, un orgoglio e una soggettività, e lo si è fatto in modo mortificante. Anche questo ha contribuito a far germinare la cultura dell’antipolitica e dell’individualismo, che stanno distruggendo l’idea stessa di democrazia.

L’ultimo portatore della tradizione comunista, forse, è Massimo D’Alema.
Mah. D’Alema è una figura bizzarra, perché non è parte del Partito Democratico ma continua a dimenarsi al suo interno, combinandone di ogni genere. Lo considero una persona intelligente, ma politicamente le ha sbagliate tutte.

Eppure il suo leader, il premier Matteo Renzi, è indubbiamente una figura carismatica che ha riportato il centro-sinistra alla guida del Paese.
Mi viene difficile definire di sinistra un Governo che sostiene che il Parlamento debba intralciare il meno possibile, che i sindacati siano da ammazzare e che la governance vada affidata a tecnici e a fantomatici “esperti”. Per quel che riguarda la leadership, un leader non può esistere senza un partito. La politica di oggi è uguale ai programmi televisivi, che ragionano solo in termini di auditel e che cambiano per incontrare il gradimento del pubblico. E’ un gioco di specchi: la politica coincide con l’opinione pubblica, che segue ciò che il potere costituito le induce.

Come dovrebbe essere, invece?
La politica è costruzione di senso, di un progetto e dunque di un soggetto consapevole. E qui incontriamo il problema sociale dei nostri tempi: la collettività, che non riesce a ritrovare il proprio protagonismo.

Lei ha vissuto gli anni più intensi della storia del Partito comunista e della sinistra italiana. Che cosa ricorda di quegli anni?
Il Partito ha vissuto una storia più ortodossa e una più eretica, che poi è stata la mia. Nell’insieme, però, tutto ciò che di buono si è ottenuto in questo paese viene dal Partito comunista italiano. Ricordo gli anni Cinquanta, difficilissimi e con lotte terribili, ma anche anni di costruzione e di grande entusiasmo. Poi gli anni Sessanta, in cui la sinistra italiana si è aperta alle correnti politiche e culturali internazionali, generando un dibattito vivace, sfociato poi nella bellissima stagione del 1968. In questi anni abbiamo combattuto per impedire il degrado del Pci, che si stava burocratizzando e arroccando nelle istituzioni e nei poteri locali, perdendo contatto con le lotte. Gli anni Settanta sono stati invece l’inizio della fine.

Ricorda quando ha preso la prima tessera del Pci?
Io mi sono iscritta nel novembre 1947, l’anno delle elezioni amministrative a Roma. Venivo dalle battaglie del partito a livello giovanile con il Fronte della gioventù, e a spingermi a prendere la tessera è stato un episodio di cronaca. In quell’anno un militante della Democrazia Cristiana venne ammazzato a piazza Vittorio, mentre attaccava dei manifesti. Dell’omicidio furono accusati tre ragazzi comunisti, arrestati e poi scarcerati, e fu forse la prima delle provocazioni di quel periodo di grandi contrasti. Non si scoprì mai chi uccise quel giovane, ma per me quello fu il segnale che i tempi belli del Dopoguerra e delle speranze erano finiti e che cominciava un periodo duro, di scontro anticomunista. Lì ho capito che non si poteva più solo simpatizzare ma bisognava impegnarsi completamente.

Quella è stata anche la stagione dei grandi leader di partito. Chi ricorda con più nostalgia?
Sicuramente Palmiro Togliatti. Fu un personaggio di statura straordinaria, di cui oggi non si parla più. Io l’ho conosciuto: parlava come un professore di liceo e scriveva in modo molto difficile, portava sempre un vestito blu a righe con il doppio petto e gli occhiali. Aveva tutto tranne che l’aspetto di un leader carismatico come lo intendiamo oggi, eppure la sua morte ha provocato il primo vero moto spontaneo e nemmeno previsto dei militanti del Pci. Un milione di persone si riversò a Roma per il suo funerale, una mobilitazione immensa che non si era mai vista, vent’anni prima di Berlinguer.

Un nome, quello di Enrico Berlinguer, che più di Togliatti è rimasto nella memoria collettiva della sinistra di oggi.
Berlinguer è stato fatto passare per una sorta di zio buono e un po’ scemo. In questo senso, l’informazione ha fatto un servizio terribile alla sua memoria. Per ciò che posso dire io, il giudizio migliore su di lui me lo diede una militante, che mi disse: «Parla così male che è assolutamente certo che dica la verità». Questo per dire come non era certo l’arruffapopoli che ad alcuni piace descrivere.

Com’è stato essere donna in un partito come il Pci?
Quando ferveva il dibattito sul voto femminile, la parte più retrograda del partito era contraria perché temeva che, dando il voto alle donne, queste avrebbero ascoltato il parroco e votato per la Democrazia Cristiana. Fu Togliatti ad imporsi, rivendicando il protagonismo politico femminile: il Pci ha consapevolmente costruito una soggettività delle donne, pur scontando un’origine culturale profondamente contadina.

Il Pci ha anche dato al Parlamento la prima donna Presidente della Camera…
Io ho apprezzato Nilde Iotti soprattutto nella sua fase politica precedente, perché poi la retorica l’ha trasformata in una specie di busto marmoreo. Lei invece ha diretto con grande intelligenza la sezione femminile del Pci e il suo merito è stato di avere il coraggio di essere una donna normale, senza travestirsi né da guerrigliera né da suora missionaria.

Lei però il Pci lo ha abbandonato, quando fondò Il manifesto insieme a Pintor, Rossanda e Parlato.
E’ stata una scelta drammatica per me, che ero iscritta al partito da 25 anni. Il nostro però non è stato lo strappo con un mondo, perché il nostro obiettivo era quello di rifondare il Partito comunista. Ricordo ancora lo slogan: volevamo «scioglierci in un rigenerato comunismo italiano».

Anche l’informazione, in Italia, è cambiata molto da quel 1971.
Sicuramente oggi i quotidiani mi annoiano molto più di allora. Oggi i giornali dovrebbero essere più difficili, non rincorrere facilonerie. Per le cose facili c’è internet, se compro un giornale vorrei che qualcuno mi spiegasse ciò che non capisco, invece di infarcire le pagine di banalità.

Tornando a parlare dell’oggi, Roma ha appena eletto la prima sindaca donna del Movimento 5 Stelle e le periferie hanno definitivamente abbandonato la sinistra. Se lo aspettava?
Non mi ha meravigliato. Non nutro speranze su Virginia Raggi, ma del resto nemmeno Gesù Cristo potrebbe risollevare Roma. Basta andare a vederle, quelle periferie: prima erano densi di vita collettiva e politica, oggi sono luoghi dove non c’è nulla. Questa città è cambiata in modo tremendo: se penso a com’erano le mie borgate, dove andavo a lavorare per il partito negli anni Cinquanta! Erano luoghi tremendi, pieni di profughi, ladri, prostitute, affamati e analfabeti, ma fremevano di uno straordinario protagonismo che oggi si è completamente perso.

Eppure alcuni analisti vedono qualcosa del vecchio Pci nella struttura del Movimento 5 Stelle.
Falso, non bisogna confondere un partito di massa con il populismo. Il Pci era un partito del popolo che riusciva a interpretare la propria storia per darle un senso popolare e non d’élite. I 5 Stelle, invece, credono che il popolo siano le poche manciate di persone che rispondono ai loro sondaggi su internet.

E nella sinistra italiana qualcosa si sta muovendo?
La società italiana è dinamica, i movimenti stanno riprendendo forza, soprattutto quelli che si occupano di immigrazione, e anche la rete degli studenti di sinistra è una realtà meravigliosa. Si tratta, però, di una dimensione frantumata che va ricostruita, soprattutto dal punto di vista della comunicazione e della visibilità. Il vero obiettivo, però, rimane quello di riportare la gente ad amare la democrazia, ricominciando dall’Abc e riportando i giovani alla politica, che significa prima di tutto pensare il mondo in relazione all’altro e non a se stessi.

A proposito di democrazia, andrà a votare al referendum costituzionale di ottobre?
Assolutamente sì. Andrò a votare, parteciperò ai comitati e voterò no, proprio in nome della cultura democratica di cui abbiamo parlato.

L’Europa è il tema del suo ultimo libro, Manuale antiretorico dell’Unione Europea, in cui analizza le origini ma soprattutto il futuro di questa istituzione. Lei che giudizio dà?
Anzitutto io credo sia necessario sciogliere un equivoco. L’Europa e la sua istituzione – prima la Cee e oggi l’Unione Europea- sono due cose molto diverse. Si può amare molto l’Europa e detestarne invece l’istituzione. Del resto, che l’Ue fosse detestabile si vedeva già dalla sua costituzione, basti pensare che gli stessi federalisti della scuola di Altiero Spinelli la disconobbero subito come loro creatura. L’Unione nasceva con l’ideale di impedire le guerre nel continente, ma poi nel concreto divenne da subito parte in campo della Guerra Fredda, coincise con la Nato e con l’armarsi dell’Occidente. Per quanto riguarda un giudizio sull’oggi, l’Europa del trattato di Maastricht e Lisbona è se possibile anche peggiore di quella iniziale.

La risposta è la Brexit, allora?
Certo che no. La Brexit nasce da una pulsione diversa, lo scetticismo britannico verso un’istituzione che viveva come riduttiva del suo ruolo storico. Inoltre in Gran Bretagna c’è stata una fortissima polemica del sindacato operaio contro un’Europa che avvertiva come responsabile di un attacco al welfare, cosa per altro storicamente falsa perché è stata Margaret Thatcher a smantellarlo. Io credo che, nonostante tutto, una forma di istituzione europea vada mantenuta, perché necessaria come struttura politico-democratica che prenda le decisioni in un mondo sempre più globalizzato. In questo senso considero il ritorno alla sovranità nazionale come una pura follia, e chi crede il contrario non sa di che parla. Rimanere soli come stati nazionali significa cadere nell’oceano della globalizzazione e venire risucchiati.

E dunque che direzione dovrebbe prendere quest’Europa?
Io sono convinta però che la strada sia quella di creare macroregioni in cui ricostruire un meccanismo di controllo politico sull’Unione, il cui male maggiore è che lascia le decisioni fondamentali agli accordi tra capitale privato e multinazionali, mentre gli stati sovrani si occupano solo di regolamenti applicativi.

C’è un problema di democrazia, quindi.
Certo, e la Gran Bretagna ne è stata esempio. Lì abbiamo assistito a un voto antiestablishment e l’errore di chi governa è stato fare un referendum su un tema assolutamente complesso, su cui si sono scaricate l’emotività e la non conoscenza. La democrazia, però, non è questo: la democrazia deve essere colta, una struttura che nutre le articolazioni sociali e collettive e che dà ai cittadini gli strumenti per capire che cosa sta votando.

Potrebbe essere questo il ruolo della sinistra europea, di cui da anni si parla come cuore di una futura forza riformista?
Willy Brandt diceva che il Partito socialista europeo è il miglior posto dove andare a leggere i giornali dei propri paesi. In pratica non conta nulla, perché è una formazione puramente formale. La vera responsabilità della sinistra, però, è un’altra: non aver mai lavorato per una vera costruzione di un demos europeo. Per incidere sulle decisioni, infatti, sarebbe stato necessario costituire un soggetto politico-sociale, un’opinione pubblica che valicasse i confini nazionali dei singoli stati.

Ti potrebbe interessare anche...