«Chi parla in nome del popolo di solito è un bugiardo compulsivo e un aspirante tiranno»


Vigilare sul potere e opporsi senza paura: lo scrittore Javier Cercas traccia una strada per ritrovare l’identità democratica. E spiega perché bisogna diffidare di chi parla di popolo e imparare che esistono solo cittadini
di Marco Damilano
28 febbraio 2019
Javier Cercas
Il passato non è morto, non è nemmeno passato, dice Javier Cercas citando William Faulkner. Lo scrittore spagnolo conversa sulla necessità di dire la verità, nella stagione della menzogna elevata a sistema di potere e esercitata in nome del popolo. Nell’Europa in cui riemergono morti disseppelliti, in Spagna il corpo di Francisco Franco è rimosso dal suo mausoleo mentre le destre si uniscono in vista del voto di aprile. Europa e verità sembrano oggi due facce di una comune crisi, ma anche due opportunità per la rinascita di un’identità democratica.

Europa e verità sono due parole che oggi sembrano rappresentare la nostra crisi. In un suo saggio, qualche anno fa, lei contrappose «il cinismo ipocrita, arrogante, feroce, menzognero e solenne» della verità di Agamennone al «coraggio discreto e ironico» del guardiano dei porci che lo contraddice, che afferma di non essere d’accordo, che dissente. Cosa significa dire la verità, per un intellettuale, uno scrittore o un giornalista? C’è ancora la possibilità di dirla?
«Non soltanto è possibile dirla: è indispensabile. Il motivo è che la verità fabbrica uomini e donne liberi, mentre la menzogna fabbrica soltanto schiavi: perciò il potere, cioè Agamennone, ha tanto interesse a diffondere menzogne e perciò il primo dovere di un cittadino, cioè del guardiano dei porci – per non parlare dell’intellettuale o del giornalista – consiste nel rifiutarsi di accettare quelle menzogne. Il problema è che la menzogna oggi ha più potere che mai, non necessariamente perché si dicano più menzogne che mai, ma perché, grazie al potere crescente, pervasivo, dei mezzi di comunicazione, la menzogna ha una capacità di diffusione più grande che mai. Lo vediamo ogni giorno: sono state menzogne di massa, diffuse massivamente da alcuni mezzi di comunicazione e non contrastate da altri – o non con la sufficiente efficacia – a provocare la Brexit, l’arrivo di Donald Trump al potere o la crisi catalana del 2017 e quella di adesso. Perciò mi fa infuriare sentir dire da qualche giornalista che il giornalismo è morto. In realtà, il giornalismo – il buon giornalismo – è più necessario che mai».

Non c’è solo la maggiore capacità di diffusione. Un tempo la menzogna serviva a nascondere il potere dalla vista del popolo, era un velo che impediva di scoprire quel che avveniva nel Palazzo, nella Corte. Oggi, invece, la menzogna è pronunciata in nome del popolo. Anzi, si potrebbe dire che il popolo è chiamato dal potere a rendere vero il falso e falso il vero.
«Non è il popolo, ma sono i demagoghi che, da che mondo è mondo, parlano in nome del popolo. In realtà, almeno in democrazia, il popolo, così, in astratto, non esiste: esistono i cittadini, con i loro diritti e i loro doveri. Bisogna diffidare di chi usa la parola popolo, e chi parla in nome del popolo di solito è un bugiardo compulsivo e un aspirante tiranno. Si potrebbe quasi dire, ricordando la famosa frase del Dottor Johnson sulla patria, che il popolo è spesso l’ultimo rifugio delle canaglie».

Tuttavia oggi gli intellettuali impegnati sono sul banco degli imputati. Vengono accusati di essere lontani dal popolo, almeno quanto prima si pensava che ne fossero la voce. Oppure si contesta loro di restare in silenzio, impauriti. Altri, invece, si mettono in gioco con il loro corpo: in Italia alcuni scrittori sono saliti sulle navi che salvano i migranti nel Mediterraneo. Qual è il ruolo di un intellettuale oggi? Dire di no, d’accordo, ma dire di no di fronte a cosa? E come si dice di no?
«Come si è sempre detto: rifiutandosi di accettare l’ingiustizia, la menzogna, la barbarie. E rifiutandosi di farlo quando tutto cospira perché le si accetti, quando quel rifiuto è mal visto. È questa la cosa difficile, ed è questo ciò che deve fare non solo un intellettuale, ma qualunque persona per bene. Per il resto, capisco il discredito della figura dell’intellettuale, che è nato nel XVIII secolo come un divulgatore della ragione illuminista contro l’oscurantismo religioso e nella seconda metà del XX secolo si è degradato fino a trasformarsi a volte in un diffusore di nuovi oscurantismi, nuove religioni e nuove tirannie. Per questo c’è chi pensa che l’intellettuale sia morto. Io penso esattamente il contrario: credo che oggi ci siano più intellettuali che mai. Perché, se l’intellettuale è semplicemente qualcuno che, oltre a guadagnarsi da vivere con il suo lavoro, partecipa al dibattito pubblico, chiunque abbia un iPhone ed esprima opinioni su ciò che ci riguarda tutti – e questa è la politica, parola che viene da polis – è un intellettuale, e non soltanto, come prima, quelle persone che per la loro notorietà avevano accesso ai mezzi di comunicazione pubblica. Ciò di cui abbiamo bisogno, quello sì, è di rinnovare la figura dell’intellettuale, perché il vecchio modello dell’intellettuale non funziona. Ciò di cui abbiamo bisogno sono buoni intellettuali, e non cattivi: persone in grado di dire verità che nessuno vuole ascoltare o che danno fastidio a tutti, individui dotati del coraggio e della lucidità sufficienti per dire No quando tutti – e soprattutto quelli che stanno dalla loro parte – dicono Sì. E che lo fanno anche a rischio di trasformarsi in nemici del popolo, come il personaggio di Ibsen».

Che cos’è l’Europa per lei?
«Non so definire l’Europa in una sola frase, quello che so è che l’Europa unita è l’unica utopia ragionevole che abbiamo inventato noi europei. Di utopie criminali – paradisi teorici trasformati in inferni reali – ne abbiamo inventate molte; ma di utopie ragionevoli, soltanto questa, che io sappia. E lo è perché non soltanto è il progetto politico più ambizioso del XXI secolo, come riconoscevano tutti prima della crisi economica del 2008-9, ma perché è l’unico modo di preservare in Europa la pace, la prosperità e la democrazia. E so anche che non si costruisce l’Europa unita di cui parlo – un’Europa federale, diciamo – costruendo frontiere e muri. In realtà, si è deciso di innalzare quelle frontiere a causa della crisi, quando alcuni demagoghi hanno utilizzato il timore e la disperazione di tanti – in Europa, ma non soltanto in Europa – per convincere molta gente che la cosa migliore fosse tornare alle false sicurezze del nazionalismo, a ciò che Nietzsche forse chiamerebbe “l’odore della stalla”. Ma sappiamo già tutti dove conduce il nazionalismo in Europa».

Per Paesi usciti da una dittatura e arrivati tardi alla modernità, come l’Italia nel 1945 e la Spagna nel 1975, l’Europa è stato il destino inevitabile, la grande occasione. Oggi è il terreno dello scontro, su cui crescono carriere politiche come quella di Matteo Salvini o del leader di Vox Santiago Abascal. È solo un caso che questo avvenga nei Paesi in cui non si sono fatti pienamente i conti con la storia?
«L’antieuropeismo, come sa, è adesso molto più forte in Italia che in Spagna, la quale continua a essere il Paese più europeista d’Europa, o uno tra i più europeisti. E non sono sicuro che questo antieuropeismo abbia a che vedere con le difficoltà di assumere il nostro passato peggiore: pensi, per esempio, alla Gran Bretagna, dove l’antieuropeismo è ancora più forte che in Italia, o ad alcuni Paesi nordici. Per il resto, la verità è che tutti i Paesi hanno delle difficoltà ad assumere il loro passato peggiore. Voglio dire che noi tutti – Paesi e persone – abbiamo un’eredità buona e una cattiva; e tutti sappiamo cosa fare con quella buona; la domanda è: cosa ne facciamo di quella cattiva? Secondo me, ciò che bisogna fare – e sfortunatamente non facciamo – è non edulcorarla né mascherarla né inventarsi un’eredità alternativa, ma conoscerla e comprenderla. La ragione è che, se si conosce la propria eredità, e la si comprende, la si può governare; però, se non la si conosce e non la si comprende, sarà quell’eredità a governarci, con il risultato che continuiamo a ripetere gli stessi errori commessi dai nostri predecessori. Ed è quello che indubbiamente ci sta accadendo adesso in tutto l’Occidente: che stiamo ripetendo molti errori fatali che abbiamo commesso negli anni Trenta».

Tra le eredità che ritornano c’è una parola pesante come l’identità. Identità nei suoi libri è chi si inventa una vita mai vissuta, come Enric Marco, l’impostore che somiglia a tanti politici di oggi nel loro rapporto debole e strumentale con la verità. Identità è anche qualcosa da ricostruire, da riportare alla luce, con un processo doloroso. Ma la cultura, la società, la politica europea sono in grado di fare questo cammino?
«Non lo so, ma devono farlo. Perché, se qualcosa esiste, è l’identità europea, che consiste proprio nella sua diversità. Voglio dire che ciò che definisce l’Europa è la convivenza in uno spazio relativamente ridotto di una moltitudine di lingue, culture e tradizioni diverse. Per me, la grande sfida dell’unione dell’Europa – ciò che può fornirle forza – consiste nel rendere di nuovo compatibili la diversità culturale e l’unione politica. E per questo penso che il motto ideale dell’Europa federale sarebbe uno dei motti originari degli Stati Uniti: “E pluribus unum”. Dai molti, uno».

Nei suoi romanzi c’è spesso la figura dell’eroe. Eroi riluttanti. Eroe è Franz Kafka, che il giorno della dichiarazione di guerra della Germania alla Russia il 2 agosto 1914 annota che andrà a nuotare e che durante una manifestazione contro l’esecuzione dell’anarchico Liabeuf a Parigi resta immobile e ritto di fronte alla polizia. Eroe è Miralles nei “Soldati di Salamina”, che risparmia il nemico falangista. Eroe è suo zio Manuel Mena, in “Il sovrano delle ombre”. Eroi sono quelli che fanno il passo indietro, come Gorbaciov, Jaruzelsky e Adolfo Suárez, gli eroi della ritirata. Sono contraddittori, ambigui, quasi sempre sconfitti. Chi è il suo eroe, in questa Europa?
«Anche questo non lo so. In realtà, anche se alcuni dei miei romanzi sono in effetti indagini sul tema dell’eroismo, la verità è che non sono ancora sicuro di sapere cosa sia un eroe. Quanto agli eroi di oggi, forse è troppo presto per sapere chi sono; e non sarà facile saperlo neanche in futuro: dopo tutto, una delle caratteristiche dell’eroe è che pratica la virtù in segreto; perciò spesso nessuno sa chi è: perché la virtù pubblica non è quasi mai virtù, bensì un simulacro di virtù. In ogni caso, la cosa sicura è che, come dicevo prima, si tratta di qualcuno capace di dire No quando tutti intorno a lui dicono Sì, e di qualcuno capace di giocarsi tutto facendolo. Perciò ci sono così pochi eroi».

Sto seguendo quanto accade in Spagna: il dibattito nato dalla decisione del governo del socialista Pedro Sanchez di rimuovere la salma di Francisco Franco dal mausoleo della Valle de los Caidos, la crescita di Vox in vista delle elezioni del 28 aprile. Ci sono i morti dimenticati nelle fosse comuni, i morti da disseppellire che sono l’immagine di un passato mai finito, ma neppure affrontato. Il ritorno della destra unita in piazza, compresi i moderati e i popolari che avevano strappato con il franchismo. Cosa sta succedendo? Cosa ci dicono i fantasmi del passato?
«Dicono ciò che dice Faulkner in “Requiem per una monaca”: “Past is not dead; it’s not even past” (Il passato non è morto; non è nemmeno passato). Dicono che il passato, soprattutto il passato del quale ci sono memoria e testimoni, non è ancora passato, né in Spagna né altrove: quel passato è una dimensione del presente senza la quale il presente è mutilato. Dicono che viviamo dovunque in una sorta di dittatura del presente, secondo la quale il presente è soltanto oggi (ciò che è accaduto ieri è storia, e ciò che è accaduto una settimana fa è preistoria), e che questo genera una visione falsificata della realtà, perché il presente comprende anche il passato (e soprattutto il passato recente). Dicono che, come affermavo prima, se non conosciamo e comprendiamo la nostra peggiore eredità, quell’eredità finisce per ritornare e per governarci. Dicono che, in fondo, ciò che sta succedendo in Spagna non è molto diverso da ciò che sta succedendo non soltanto in Europa ma nel resto dell’Occidente: che il passato, il peggior passato, sta tornando – in realtà, non è mai andato via – e che, anche questo l’ho già detto prima, stiamo tornando a commettere gli stessi errori che abbiamo già commesso negli anni Trenta, come se volessimo tutti dar ragione a Bernard Shaw, che scrisse: “L’unica cosa che s’impara dall’esperienza è che non s’impara nulla dall’esperienza”».

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