Ecologia del pensiero

di Alessandro Gilioli

Era quasi due anni fa la prima volta che ho lanciato l’allarme: occhio che il berlusconismo ci ha avvolti tutti – con i suoi linguaggi e i suoi tic: non è che finito Berlusconi, non rimarranno macerie. Anzi.

Infatti di queste macerie siamo ancora prigionieri. Anzi, ne sono spesso prigionieri i nostri cervelli. Da tutte le parti: Pd, M5S, tsiprasini, cani sciolti, varianti varie.


Modi di dire, anzi modi di ragionare. Di pensare e quindi di parlare.
Come l’invito agli avversari a rosicare se si ottiene un qualche successo o se si va bene in turno elettorale: la prima volta che l’ho sentito è stata sulla bocca di Previti, in un comizio a Ostia, nel 1994. Oggi è un bug trasversale nella testa di molti: come se una vittoria fosse la misura del proprio aver ragione; come se una minoranza – o chi ha perso una battaglia – abitasse nel torto perché è minoranza, perché ha perso una battaglia.
Oppure l’abitudine a terminare i propri post politici con un “paura eh?”: anche questo un residuato del previtiano «non faremo prigionieri», oggi drammaticamente diffuso da tutte le parti.
Ma ci aggiungerei anche la tendenza miserabile a storpiare i nomi: qui il copyright ce l’ha Emilio Fede con Agnolotto al posto di Agnoletto, l’ho già scritto altrove, e comunque storpiare un cognome non è mai un’argomentazione che sancisca torti e ragioni.
Poi, ovviamente, il ragionamento eristico detto “allora, le foibe?”, consistente cioè nell’individuare una schifezza vera o presunta dell’avversario per non rispondere delle proprie: quando dovrebbe essere abbastanza condivisa la norma dialettica di buon senso secondo cui le stronzate altrui non giustificano le proprie e due stronzate commesse da persone di opposte fazioni non si elidono a vicenda, ma si sommano e basta.
Infine, se posso, in quest’orgia di sragionamenti metterei anche la confusione superficiale tra politico e giudiziario, eccellente approdo di questi vent’anni.
Ci siamo abituati cioè all’idea che il politico che non commette alcun reato è buono e quello con la fedina penale sporca è cattivo. Il che in linea di massima può essere una base di partenza, ma molto generally speaking perché altrimenti rischia di diventare ottusamente semplificatorio. Pensate alla disobbedienza civile di Bonino sull’aborto e di Pannella sulla cannabis, per esempio, o al recente caso Grillo condannato per violazione a un sigillo Tav: tutti atti politicamente ineccepibili; per contro ci sono comportamenti pessimi che non sono reato (case a propria insaputa o in conflitto di interessi, regali ricevuti da lobby, cambi di casacca per convenienza personale, ma anche impegni disattesi, bugie evidenti, inganni mediatici) la cui opportunità politica e/o morale è forse più discutibile di alcuni tipi di condanne penali.
Liberarci di questi cascami mentali, alla fine, dipende da ciascuno di noi. E, ancora, non ha molto a che vedere con il simbolo che scegliamo alle urne. È, più semplicemente, una questione di ecologia del pensiero.

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