Giacomo Matteotti, un politico al servizio dei più deboli, un “giustizialista” nell’ Italia delle “Caste” .

Giacomo Matteotti, un politico al servizio dei più deboli, un “giustizialista” nell’ Italia delle “Caste” .
pubblicata da Marisa Clara Celeste Corazzol il giorno sabato 28 agosto 2010 alle ore 9.22

Nell’Italia di oggi, il nome di Giacomo Matteotti vive soltanto nella toponomastica: viale Matteotti, corso Matteotti, largo Matteotti, piazza Matteotti, non c’è quasi città italiana dove non si sia voluto rendere omaggio – subito dopo la Liberazione – alla figura del martire antifascista.

Ma se non fosse per questo, cioè per la sopravvivenza che gli viene garantita dai postini, dai navigatori satellitari e da Google Maps, Matteotti sarebbe scomparso dalla nostra vita pubblica e privata. Come don Abbondio di Carneade, potremmo dire di Matteotti: chi era costui? Non se ne sono ricordati neppure i fondatori del Partito democratico, quando hanno discusso (o hanno fatto finta di discutere) chi più meritasse di far parte del loro “pantheon”.

Eppure, una volta ripulita dallo smog delle strade e dalla polvere della storia, la figura di Matteotti sembrerebbe fatta apposta per servire all’Italia del 2010: ogni singolo ingrediente dell’esperienza politica di quest’uomo ci tornerebbe assai utile. A cominciare dal famoso «radicamento sul territorio» di cui oggi tanto si parla o si straparla, e che Matteotti interpretò in modo esemplare dapprima quale amministratore locale di vari comuni del Polesine, poi quale deputato di Rovigo al parlamento nazionale.

Dimentichiamoci la sua morte: massacrato di botte da quattro o cinque energumeni in un pomeriggio romano del giugno 1924, colpito da una pugnalata al cuore, trasportato cadavere in una boscaglia lungo la via Flaminia, occultato alla benemeglio sotto pochi centimetri di terra, fatto ritrovare un paio di mesi più tardi. Così pure, dimentichiamoci la sua esistenza d’oltretomba: il culto quasi religioso che un’Italia soggiogata e impaurita, ma non domata, scelse di votargli per vent’anni dopo il delitto, nell’interminabile attesa di una rivincita.

Dimentichiamo tutto questo, e pensiamo alla vita di Giacomo Matteotti. Guardiamo all’uomo, non al martire. E domandiamoci se non ci sarebbe gran bisogno – qui e adesso – di un politico come lui. Della sua idea di militanza come servizio dell’interesse pubblico anziché del vantaggio privato. Della sua pratica di un riformismo concreto, attuoso, costruito sui fatti anziché sulle parole. Del suo carisma personale, tanto evidente quanto poco sbandierato. E anche (come no?) della sua scommessa sul futuro della socialdemocrazia: della sua battaglia per un mondo più giusto perché meno diseguale.

Il suo fu radicamento economico e sociale, nella misura in cui – rampollo di una famiglia della borghesia agraria – doveva quotidianamente misurarsi con la miseria dei braccianti del delta del Po. Fu anche radicamento intellettuale e morale, nella misura in cui lo studente di legge nella vicina Bologna ritornava appena possibile nella sua Fratta Polesine per studiarne, in biblioteca e in parrocchia, la storia locale. O per rifarsi gli occhi con le meraviglie artistiche del luogo: le tele di Tintoretto e di Tiepolo, la villa Badoer di Palladio.

Da amministratore di Fratta e di altri comuni della provincia di Rovigo, tra il 1912 e il 1920, Matteotti si fece soprattutto la fama dello spulciatore di bilanci: quanti sindaci e segretari comunali se lo sognavano di notte… Il suo primo criterio d’intervento era fondato sulla compatibilità necessaria fra i preventivi di spesa e le risorse finanziarie del municipio. Niente debiti per i comuni: se non c’erano soldi in cassa, si rinunciava alla spesa. Il secondo criterio riguardava non le uscite ma le entrate. Se per le opere pubbliche mancavano i soldi, bisognava aumentare l’imposizione locale.

I contratti per i grandi lavori pubblici andavano scrutinati con la lente d’ingrandimento: nelle stipule con le imprese private, gli amministratori locali di un secolo fa non erano necessariamente più onesti degli amministratori d’oggidì. Bersaglio fisso di Matteotti anche le delibere d’urgenza delle giunte comunali: un’altra fonte di abusi per cent’anni ancora della storia d’Italia.

Al tempo nostro – il tempo della “casta” – l’immagine del brillante giurista trentenne chino sulle carte di minuscoli comuni rodigini (oltre a Fratta, Villamarzana, Villanova del Ghebbo, Fiesso Umbertiano, Frassinelle Polesine) per verificare che non un soldo pubblico facesse una brutta fine, quell’immagine rischia di apparire tanto strana da riuscire surreale. Ma questo era Matteotti, e anche perciò si può avvertire, oggi, un tanto acuto bisogno di lui.

Ci manca come il pane la sua interpretazione della militanza politica quale etica del lavoro e della conoscenza: la medesima forma di militanza che proseguì a Roma, deputato socialista, dal 1919 al ’24. «Passava ore e ore – ricorderà un compagno di partito – nella biblioteca della Camera a sfogliare libri, relazioni, statistiche, da cui attingeva i dati che gli occorrevano per lottare con la parola e con la penna, badando a restare sempre fondato sulle cose».

Fondato sulle cose: e la cosa che più turbava Matteotti era la diseguaglianza sociale. Di suo, era molto ricco: aveva ereditato dal padre oltre 150 ettari di terra, gli avversari – da destra o da sinistra – lo irridevano come il «socialista milionario». Più che dei profitti dei suoi terreni, Matteotti si preoccupava dei diseredati del Polesine, analfabeti al 60-70 per cento. Da deputato, le sue battaglie per maggiori finanziamenti alla pubblica istruzione (edilizia scolastica, biblioteche popolari, corsi serali per adulti) fecero tutt’uno con le sue accuse contro gli insegnanti meno scrupolosi, quelli che un ministro veneto di oggi chiamerebbe i “fannulloni”.

Del resto, nel 1920, quando un ministro della Pubblica istruzione chiamato Benedetto Croce gli parve discutere dei problemi della scuola restando sempre sul vago, senza padroneggiare i dossier, dallo scranno di Montecitorio Matteotti non fece sconti neppure a lui: «Voi state speculando filosoficamente sulle nuvole. Qui non si viene con i libri di estetica, ma con dei programmi pratici e questi si ha il dovere di assolvere».

Alla sua maniera, il socialista Matteotti era un liberale. Dopo l’avvento al potere di Mussolini, nel 1922, gli capitò di rimproverare al governo certi interventi di sostegno statale all’economia privata, come pure certe misure protezionistiche in materia di dazi doganali. Con Filippo Turati, Matteotti lasciò il Psi e fondò il Psu (Partito socialista unitario) quando si convinse che il filo-sovietismo dei massimalisti avrebbe consegnato l’Italia alle destre, mentre serviva un riformismo socialdemocratico. A quel punto, era comunque troppo tardi. L’ex socialista Mussolini aveva ormai in mano il governo del paese, e non l’avrebbe più mollato per vent’anni, a prezzo di infinite sciagure. Il radicamento di Matteotti sul territorio del suo Polesine contribuì a rendergli chiara la natura di classe del fenomeno fascista: l’alleanza dei ceti medi con gli agrari, contro i diritti acquisiti dal bracciantato in decenni di sacrifici e di lotte. Dopodiché, a quest’uomo delle istituzioni non restò che battersi puntigliosamente, coraggiosamente, disperatamente, per tutelare le ultime vestigia del santuario democratico. Dal 1923 al ’24, l’emiciclo di Montecitorio risuonò delle sue denunce contro il ricorso sistematico del governo Mussolini allo strumento dei decreti-legge; contro la tentazione mussoliniana di limitare la libertà di stampa dei giornali antifascisti; contro i numeri truccati della propaganda governativa riguardo alla situazione economica. Il 10 giugno 1924, Matteotti fu ucciso per volontà di Mussolini (o per suo ordine) anche perché si preparava a denunciare un affare di corruzione: una sporca connection ai vertici del potere, concessioni petrolifere all’impresa americana Sinclair Oil in cambio di tangenti a una “cricca” vicinissima al duce e ai massimi dirigenti del Partito nazionale fascista. Sicari al soldo di Mussolini ebbero paura che le rivelazioni di Matteotti sulla “convenzione Sinclair” suscitassero un tale scandalo nel paese da provocare la caduta del governo, e assassinarono il deputato socialista alla vigilia del giorno in cui ne avrebbe parlato alla Camera.

Nell’Italia del 2010, un uomo come Giacomo Matteotti si meriterebbe l’appellativo – parlandone da vivo – di «giustizialista». È infatti questa la parola con cui si suole oggi definire chi ancora crede che la magistratura debba esercitare sino in fondo il suo ruolo di ordine indipendente: perseguendo senza fallo le violazioni del codice penale, quand’anche vengano compiute dalle massime cariche dello stato. Ma è proprio in nome di un’idea nobile, alta, severa della giustizia, che alcuni di noi possono tanto più rimpiangere l’assenza, qui e adesso, di un nuovo Matteotti.



Giacomo Matteotti nasce a Fratta Polesine, in provincia di Rovigo, il 22 maggio del 1885.
I Matteotti sono una famiglia benestante. Dopo il liceo, Giacomo si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bologna, dove si laurea con una tesi in diritto penale.

Le prime testimonianze della sua militanza politica risalgono al 1904, quando inizia a collaborare al periodico socialista di Rovigo ‘La Lotta’. Non sappiamo su quali letture maturi la sua fede politica, né come viva i contrasti interni al partito socialista dei primi anni del secolo. I biografi di Matteotti ci raccontano che dalla fine del 1910 il giovane socialista è fra i protagonisti della vita politica e amministrativa di Rovigo, che nel 1912 è un fiero avversario della guerra di Libia, e che allo scoppio della prima guerra mondiale si schiera risolutamente per la neutralità.

Ti potrebbe interessare anche...