Da Grillo a Renzi, la scienza misura il populismo italiano 01 ottobre 2016

Senzanome
Il linguaggio ipersemplificato, il riferimento continuo alla gente e a un nemico, la retorica contro le élite, la costruzione della figura salvifica del leader. Uno studio analizza stile e comunicazione dei leader politici italiani
DAVIDE PIACENZA
Dal numero di pagina99 in edicola il 1° ottobre 2016

Cos’hanno in comune figure politiche che passano dalla sinistra socialista al nazionalismo xenofobo, e dall’antieuropeismo più bieco a ciò che a giugno di quest’anno sul manifesto veniva definito, auspicandone l’avvento, «un serio populismo di sinistra, capace di parlare alle masse e di opporsi alle politiche dell’establishment»? La risposta è: il modo di parlare. Farebbe bene oggi un novello Tolstoj a scrivere sulle colonne politiche di un grande quotidiano che tutti i rappresentanti dell’establishment si somigliano, e invece ogni populista è populista a modo suo. In Italia un nuovo studio dell’Università di Pisa ha provato a dimostrare come questa tendenza, resa protagonista dell’agone politico, può essere misurata e soppesata.

Nella bozza di studio presentato di recente al convegno annuale della Società italiana di scienza politica, Populism as Communication Style: How Party Leaders’ Tweets Affect the Twittersphere – in attesa di peer review scientifica – due ricercatori dell’ateneo pisano hanno passato al setaccio i tweet di Renzi, Salvini, Grillo e Meloni per capire quanto populismo c’è nelle loro interazioni quotidiane con gli elettori. Pagina99 ha parlato con un uno degli autori del paper: «La ricerca si occupa di quattro dimensioni relative alla definizione del concetto di “populismo”, messe insieme tenendo conto che il populismo di per sé non è buono o cattivo: è semplicemente una strategia immediata per parlare alla propria constituency».

In valore assoluto, lontano dalle esternazioni di Trump sui messicani o da quelle di Farage pro-Brexit, infatti, «il populismo non ha colore» (per prendere in prestito parole scritte nel 2007 dagli studiosi Jan Jagers e Stefaan Walgrave). La comunicazione populista, secondo lo studio pisano, si articola in quattro elementi, che possono anche non essere compresenti: lo stile (cioè il linguaggio ipersemplificato), l’ideologia (i continui riferimenti alla semi-mitologica gente comune), la retorica (lo storytelling in grado di identificare un nemico comune, che può essere anti-elitario o euroscettico) e l’organizzazione (i tanto discussi tentativi di implementazione di democrazia diretta, ma anche la costruzione accurata della figura salvifica del leader).

Nell’arco di tempo preso in esame dalla ricerca (dal 1 maggio 2015 al 31 luglio di quest’anno), lo stile può essere a sua volta osservato in diverse componenti: il leader che ha scritto più tweet che mirano a suscitare emozioni negative nei destinatari (come per esempio l’incutere paura, o usare toni apodittici al fine di suscitare interesse o allarme nelle persone) è stato Matteo Salvini (22,4%), seguito da Giorgia Meloni (15,4%) e Beppe Grillo (14,2%). I temi su cui questo senso di ansia viene alimentato sono ovviamente il terrorismo, i migranti e la perdita di benefici legati alla crisi economica e alla mancanza di welfare. Spesso queste emozioni negative vengono associate alla costruzione di un “noi contro loro”. Per quanto riguarda i leader dei partiti di destra questa costruzione semantica si sviluppa in maniera orizzontale (esclusione dell’altro, del diverso, che viene rappresentato come pericoloso), mentre in Grillo avviene in maniera verticale (contro il governo e la politica fattasi casta).

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Gli indicatori della retorica dell’esclusione – che «identifica come un nemico interno dei gruppi isolati che palesemente non condividono le “buone” caratteristiche del popolo» – sono invece presenti in un tweet su tre del leader della Lega Nord (33,3%), seguito da Giorgia Meloni (11,3%) – e qui Grillo e Renzi sono sorprendentemente appaiati, entrambi sotto il 2%. Sfogliando la bozza del paper dell’Università di Pisa, tra dati sull’uso delle mention e degli hashtag, si scopre che tutti i leader considerati tranne Renzi adottano uno stile marcatamente informale in più del 60% dei loro tweet; i riferimenti ad ansia e paura sono quasi monopolizzati dai leader di destra, mentre le strumentalizzazioni dei temi d’attualità, secondo i dati, sono ambito di pertinenza di Salvini, Meloni e Grillo.

L’attitudine definita taboo-breaking, cioè la propensione a fare o dire qualcosa di norma considerato politicamente scorretto o di rottura, è quasi inesistente: fa eccezione la comunicazione renziana (4,9%), al punto da «caratterizzarne la narrazione governativa». E le linee tra ciò che è populista e ciò che non lo è sfumano ulteriormente quando si tiene in conto la dimensione “ideologica”: Meloni, Renzi e Grillo destinano più o meno la stessa percentuale di tweet al “popolo”, ma se si tratta di persone precise (“ad hoc”, nella terminologia usata dagli accademici), Renzi supera Salvini (5,1 contro 3,3%).

È l’avvento di un populismo soft, mostrano studi come questo al di là dei singoli dati: i termini, gli stilemi e gli atteggiamenti della comunicazione populista, prima confinati a impresentabili estremisti o capipopolo appariscenti, oggi fanno parte del mainstream politico, assorbiti e declinati in varie sfumature da chiunque voglia misurarsi con le urne. E a guadagnarci, parrebbe, sono tanto i demagoghi di ogni ordine e grado quanto chi racconta le loro gesta: se i media si trovano sempre più invischiati nei cortocircuiti tra informazione e spettacolo che puntano sulla personalizzazione, i partiti politici si adeguano, adottando strategie che combaciano con un panorama mutato.
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Nel suo ultimo libro (Enough Said: What’s Gone Wrong with the Language of Politics?), l’ex direttore generale della Bbc e attuale amministratore delegato del New York Times Mark Thompson individua nel discorso politico odierno «una lotta all’ultimo sangue, in cui ogni arma linguistica è accettata»: iperboli ed esagerazioni strumentali sono la nuova normalità, e a farne le spese è il ciclo della notizia, sempre più ipersemplificato, smaccatamente personale e implacabilmente violento. Un esempio l’abbiamo avuto lo scorso lunedì sera quando, verso la fine del primo confronto presidenziale americano alla Hofstra University di Long Island, Hillary Clinton ha sottolineato che «le parole hanno importanza quando sei candidato alla presidenza».

Ce l’aveva, ovviamente, col suo avversario, il cattivo Donald Trump che il New York Times il giorno dopo ha definito «un bullo insulso» tout court. Un editoriale non firmato apparso sul quotidiano ha parlato di «una brutta campagna elettorale», chiedendosi se ha ancora senso parlare di debate quando a confrontarsi sono un candidato minimamente serio e un bullo. Il punto è che, almeno in superficie, quella in cui viviamo non sembra l’epoca adatta a essere candidati troppo seri, per così dire: la polarizzazione esasperata, i toni semplificanti – più vicini alla proverbiale pancia del Paese – in politica non sono stati soltanto sdoganati, ma addirittura premiati. Donald Trump è il caso più eclatante della recrudescenza della retorica antisistema a livello internazionale, ma la sua «brutta campagna elettorale» non è l’unica di questi anni: in Europa ci siamo da poco lasciati alle spalle quella sulla Brexit, in cui con un volo pindarico il fronte Leave si era servito di una foto raffigurante rifugiati siriani per rimarcare la bontà delle sue posizioni, e non si contano i leader e i movimenti che possono essere accostati al populismo in Germania, Spagna, Francia, Inghilterra, Ungheria, Polonia, Slovacchia. Esperienze politiche spesso antitetiche, ma unite da un fil rouge fatto di uomini sudati che strillano su un palco, manicheismi diventati raison d’être, spettacolarizzazioni istrioniche e vocabolari sempre più efferati.

E in Italia? «L’Italia può esser definita come la culla del populismo», dice a pagina99 Giuliano Bobba, professore all’università di Torino. «Il nostro è uno dei Paesi europei in cui, negli ultimi decenni, si sono sviluppate forme innovative e durevoli di populismo. L’emergere della Lega Nord alla fine degli anni ’80 e l’inaspettata discesa in campo di Silvio Berlusconi a capo di Forza Italia nei primi anni ’90 hanno rappresentato i primi passi della storia recente del populismo in Italia. Il successo del Movimento 5 Stelle nel 2013 ha ampliato la varietà di populismo, includendo anche partiti non appartenenti all’area di centro destra. La fortuna di questi partiti va ricercata nella scarsa fiducia degli italiani verso le istituzioni e la politica, alimentata da una copertura giornalistica che spesso ha enfatizzato sentimenti antipolitici (la casta) e creato i prerequisiti per il successo del populismo».

L’idea di considerare il populismo come uno stile comunicativo è alla base del volume Populist Political Communication in Europe (recentemente pubblicato da Routledge) in cui Bobba, insieme a Guido Legnante, ha curato il capitolo relativo all’Italia. «Tuttavia se tutti i politici possono essere definiti come populisti, il termine stesso appare inutile, perché incapace di discriminare. La differenza allora tra comunicazione e azione politica diventa rilevante per distinguere, da un lato, una comunicazione di tipo retorico che può fare riferimento al popolo rispetto a forme di populismo anti-élite (contro la casta, contro l’Europa, …) e discriminatorie (contro gli immigrati, i rom, gli omosessuali, …) che vengono sostenute non solo nel dibattito pubblico ma anche in Parlamento».

Soprattutto grazie a Twitter, il ciclo della notizia è diventato ibrido, qualcosa di indefinibile a metà strada tra la ricerca della risposta emotiva e la necessità di raccontare i cambiamenti della classe politica; ma in questo momento sembriamo aver perso di vista quale fra i due è l’uovo e quale la gallina, e se c’è modo di scoprire cos’è nato prima. Per altri studiosi, a dire il vero, il populismo non è altro che una reazione fisiologica connaturata alla società democratica, l’influenza stagionale impossibile da schivare: nel suo Populism, la teorica politica britannica Margaret Canovan nei primi anni Ottanta vedeva l’emergere dei leader populisti come la conseguenza diretta e inevitabile dello scollamento tra le élites e il resto della società.
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«Il populismo è quel che si dice una definizione indefinita», dice a pagina99 Ilvo Diamanti, «ma è sempre usato in termini dispregiativi: “populista” è sempre l’altro, quello vicino a noi semmai è “popolare”. Entrambi i termini, però, fanno riferimento al popolo: parlare di populismo oggi evoca la necessità di definire un “popolo”, quello che una volta coincideva con un demos, i cittadini. Ed è così perché evidentemente i canali di espressione tradizionale della democrazia sono in crisi». Ho dunque chiesto al politologo se dobbiamo considerare Salvini e Trump come figli di quest’epoca, o piuttosto viceversa: «Ogni attore politico è figlio dei suoi tempi e contribuisce a formarli. Lo stesso additare Salvini e Trump è un simbolo di ciò che dicevo, della stigmatizzazione nata intorno al termine: eppure loro non sono gli unici, e la personalizzazione può anche diventare un modo per colmare il deficit di partecipazione», ha risposto Diamanti.

Far finta di essere rimasti al carisma ideologico dei leader anni Settanta sarebbe d’altronde controproducente. Ma tutto questo significa che nel futuro prossimo non ci sarà più spazio per politici “non populisti” nel senso comune del termine, personalità à la Mario Monti? Diamanti fa notare che anche l’ex premier aveva goduto di un momento di grande consenso mediatizzato (e quindi in un certo senso, populista), «perché rispondeva a una domanda, era il tecnico che risolve il problema. Credo che lo spazio per cambiare le carte ci sia, ma c’è bisogno di qualcuno che voglia muoversi in quella direzione, che oggi manca», osserva il docente di scienza politica, che nota anche come il populismo non sia più una prerogativa del solo ambito politico.

In un saggio di meritato successo di alcuni decenni fa, Principi del governo rappresentativo, Bernard Manin teorizzava la «democrazia del pubblico», ossia quel particolare e incipiente rapporto diretto tra leader e follower in via di sostituzione alle ciclopiche strutture dei prodotti delle grandi ideologie. Non bisognava, sosteneva Manin, guardare con nostalgia ai partiti di massa: d’altronde ai tempi di Montesquieu le elezioni avvenivano mediante estrazione a sorte, e nessuno si sarebbe sognato di mettere in dubbio la loro legittimità. E la stessa democrazia rappresentativa, a guardarla bene, presenta tratti innegabilmente oligarchici. Dunque perché aver paura del popolo e dell’uomo solo al comando? Un primo timido tentativo di risposta da avanzare potrebbe essere: perché un uomo solo al comando scrive troppi tweet.

[Foto in evidenza di Contrasto]

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