Guerra di sicurezza: la strategia della tensione di Matteo Salvini

Migliaia di nuovi fuorilegge e di senzatetto. Chi vuole tornare in Africa non può farlo. E scaduti i permessi non potranno più lavorare, affittare una casa e neppure andare dal medico
di Fabrizio Gatti

Guerra di sicurezza: la strategia della tensione di Matteo Salvini
Richiedenti asilo a Gradisca
Non rimane che resistere. Contro le conseguenze del decreto sicurezza di Matteo Salvini. Contro la sua piazza digitale popolata di sostenitori sempre più incattiviti. Contro questo governo gialloverde che, a oltre sei mesi dal suo insediamento, non può più giustificarsi con l’inesperienza. Il periodo di rodaggio di Giuseppe Conte è finito. E, in attesa che nasca una qualche forza politica in grado di rappresentarla, ecco allearsi un’Italia che non si piega alle disumanità del nostro tempo. Un Paese che nei suoi esempi migliori passa attraverso l’ospitalità spontanea dell’associazione Famiglie accoglienti di Bologna, i parroci che non denunceranno gli ospiti stranieri diventati irregolari a causa della nuova legge, i medici che non tradiranno il loro giuramento, la società civile che pur scontando le conseguenze della crisi economica non si rassegna a scorciatoie ideologiche: gli immigrati sono loro stessi vittime della ferocia del mercato globale, non la causa dell’impoverimento degli italiani.

È questa l’Italia che incarna ogni giorno l’eredità di Vittorio Arrigoni, il volontario ucciso in Palestina nel 2011: stay human, rimanete umani. Perfino tra gli imprenditori, che in settimana da Torino hanno protestato contro le scelte di Conte e dei vicepremier Salvini e Luigi Di Maio, è chiaro un concetto molto semplice: senza la progressiva formazione e integrazione di nuovi cittadini, il “made in Italy” pagherà presto le conseguenze dell’invecchiamento e poi del crollo demografico nazionale già evidente nelle statistiche. Con tutti i danni prevedibili sul Prodotto interno lordo e sul reddito delle famiglie.

L’Italia gialloverde però va nella direzione opposta. Paolo Gentiloni ha paragonato le decisioni del governo contro gli stranieri a una nuova strategia della tensione: «Si alimenta un’illegalità che è carburante per il proprio consenso», ha detto l’ex presidente del Consiglio ad Annalisa Cuzzocrea su Repubblica. In attesa di una correzione alla manovra economica, credibile e accettabile per Bruxelles, l’immigrazione è infatti uno dei pochissimi capitoli su cui la maggioranza Lega-5 Stelle in Parlamento ha impresso la sua impronta. E, con il decreto sicurezza, è sicuramente un’impronta repressiva: anche nei confronti di migliaia di cittadini regolarmente residenti in Italia che, con la cancellazione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, si troveranno da un giorno all’altro fuorilegge.

La promessa mancata

Forse il ministro dell’Interno Salvini intende far dimenticare così la sua promessa elettorale (irrealizzabile) che annunciava il rimpatrio di seicentomila stranieri. Nel frattempo il governo non riesce nemmeno a organizzare l’operazione più facile ed economica: far tornare in patria quanti vogliono rientrare, perché disoccupati da troppo tempo o perché è stata respinta la loro domanda di asilo. Sono al momento 684 persone, delle quali 337 hanno già ottenuto da parte delle questure l’autorizzazione a partire e i documenti di viaggio. Il Viminale ha pubblicato in ritardo il nuovo bando di finanziamento e da sei mesi le procedure in corso si sono bloccate. Un ulteriore esempio di cattiva programmazione dei fondi istituiti dal Parlamento europeo e dal Consiglio dell’Unione Europea. Sono soldi che l’Europa ci restituisce e che non siamo in grado di spendere in modo efficace. L’Italia non è mai stata in testa ai programmi di “ritorno volontario assistito e reintegro” verso i Paesi d’origine dell’immigrazione. E non lo è tuttora. Non si tratta di rimpatri forzati, ma di progetti condivisi con gli interessati perché, una volta rientrati, possano avviare attività sfruttando quanto hanno appreso durante la loro emigrazione. Nel 2017 con il “Fondo asilo, migrazione e integrazione 2014-2020” la Germania ha finanziato il ritorno volontario di 29.522 immigrati. Il Niger, Stato africano lungo la rotta verso la Libia e l’Europa, con lo stesso capitolo di finanziamento ha organizzato il ritorno di 6.467 persone, la Grecia 5.655, il Belgio 3.670, l’Austria 3.546, Gibuti 2.829, la Turchia 2.321, i Paesi Bassi 1.532. L’Italia soltanto 653 stranieri.

Non va meglio quest’anno. Siamo ancora gli ultimi del gruppo con 699 partenze dal primo gennaio al 30 giugno. Ma nemmeno l’arrivo di Salvini al Viminale ha dato una svolta al programma. Da luglio a ottobre sono stati portati a termine soltanto 216 ritorni volontari: fissando così il totale italiano del 2018 a 915 persone rientrate nei propri Paesi, secondo i dati forniti dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim), l’agenzia delle Nazioni Unite che cura il maggior numero di reintegri. La Germania è sempre in testa con 8.859 stranieri riaccompagnati da gennaio a giugno 2018, il Niger secondo con 8.249, la Grecia terza a 2.335.
I ritorni volontari sono il risultato della collaborazione sul campo tra agenzie internazionali, organizzazioni non governative e Comuni. Ma è il ministero dell’Interno che deve mettere a disposizione i fondi europei e controllare il loro impiego. «I progetti», spiegano al Viminale, «si sono via via fermati per la scadenza dei termini e il passaggio di consegne tra il governo precedente e l’attuale». Soltanto l’Oim è riuscita a proseguire, fino all’esaurimento del budget due mesi fa. Tutti gli altri programmi si sono fermati a giugno.

Dal 2016 l’Italia ha riaccompagnato 1.701 stranieri: 1.286 maschi e 415 femmine. I casi vulnerabili con problemi di salute, spesso conseguenza delle condizioni di lavoro, sono 191, mentre il dieci per cento dei rientri del 2018 è costituito da famiglie.

Il nuovo bando è stato pubblicato soltanto il 29 ottobre e programmerà le operazioni di ritorno volontario da febbraio 2019 al 31 dicembre 2021. Un ministro come Salvini che si è fatto eleggere con lo slogan “prima gli italiani” per coerenza non dovrebbe trascurare questo tipo di interventi. Anche perché costano meno: 4.500 euro a persona contro gli oltre 7.000 euro a persona delle operazioni di rimpatrio forzato scortate dalla polizia. Il denaro non viene consegnato in contanti ma trasformato in attività come l’apertura di piccoli negozi o l’avviamento di imprese artigianali, comprendendo il pagamento di corsi di studio per i figli.

Duemila euro a persona

Il finanziamento prevede duemila euro per ogni singolo capofamiglia o single, mille per ogni familiare maggiorenne a carico e 600 euro per ogni minore a carico. Con queste cifre un panettiere che aveva perso il lavoro in Lombardia ha aperto un forno in Senegal. Il resto serve a coprire il viaggio, l’eventuale formazione professionale e i costi di gestione in Italia e nei luoghi di destinazione dei progetti che vengono monitorati anche dopo il loro avvio. Non sono somme stratosferiche: 415 euro di rimborso a pratica per le spese sostenute in Italia, 585 per i costi del personale nei Paesi di destinazione. Il programma italiano ha così permesso il rientro di cittadini della Nigeria (17 per cento), Bangladesh (8 per cento), Ghana (6 per cento), Pakistan (4 per cento), oltre a Serbia, Perù e Senegal. Nella maggior parte si trattava di immigrati regolari che non avevano potuto rinnovare il permesso di soggiorno dopo aver perso il lavoro per la crisi.

Salvini comunque non porterà l’Italia in testa alla classifica dei ritorni volontari. Nel triennio 2019-2021 il bando del Viminale stabilisce un massimo di duemila beneficiari: 666 all’anno, soltanto il 2,2 per cento di quanto ha fatto la Germania nel 2017. Nemmeno i rimpatri forzosi, che costano quasi il doppio poiché ogni straniero deve essere accompagnato da due o tre agenti di polizia, saranno un record. Dal registro dei voli di Stato si ricava il successo internazionale del governo di Giuseppe Conte: da quando è ministro, il leader della Lega è volato a Tripoli, a Innsbruck, al Cairo, a Vienna, a Tunisi, a Lione e a Doha. Ma a parte Libia, Egitto e Tunisia, Salvini non è stato in Niger, in Mali, in Senegal, in Gambia, in Ghana, in Pakistan, in Bangladesh, in Nigeria, in Algeria, o in Costa d’Avorio: questa la provenienza di gran parte degli stranieri sbarcati in Italia negli ultimi anni. Nemmeno il ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, gli è stato d’aiuto. Eppure senza relazioni intergovernative e accordi bilaterali con i Paesi d’origine, anche su questo fronte le promesse della maggioranza gialloverde sfumano come fantasie. Lo rivelano i numeri: nei primi tre mesi di governo Conte, secondo gli ultimi dati pubblicati, il Viminale ha eseguito il rimpatrio forzato di 1.296 persone, contro le 1.506 rimpatriate l’anno prima nello stesso periodo. L’Italia è sempre più isolata, chiusa in un vicolo cieco. Ma tanto per non smentirsi, il ministro dell’Interno ha annunciato che il governo italiano non parteciperà al vertice internazionale sull’immigrazione convocato dalle Nazioni Unite il 10 e l’11 dicembre a Marrakech in Marocco.

Diciannovemila senzatetto

Il blocco dei ritorni volontari e i nuovi irregolari creati dal decreto sicurezza di Salvini gravano su paesi e città. La prefettura di Milano ha calcolato quanti stranieri saranno espulsi dal circuito legale a causa della nuova norma che cancella i permessi di soggiorno per motivi umanitari. La questione è stata discussa in una riunione con i vertici di polizia e carabinieri: 240 persone con i permessi appena scaduti si ritrovano già in una posizione di illegalità. Ma nel giro di qualche mese saliranno a novecento. Tra loro anche nuclei familiari con bambini piccoli. Il permesso umanitario è la forma di protezione più generica e per questo maggiormente riconosciuta dalle commissioni territoriali: riguarda il 52 per cento delle richieste, contro il 13 per cento di concessioni dello status di rifugiato previsto dalla Convenzione di Ginevra e il 35 per cento di protezione sussidiaria, riservata a chi non può essere rimpatriato perché proviene da zone di guerra o rischia di essere vittima di condanne a morte o tortura. Secondo i dati raccolti in un rapporto della Corte dei Conti pubblicato nel marzo 2018, sono diciannovemila in Italia le persone con il permesso umanitario in scadenza nel giro di pochi mesi: non potranno rinnovarlo, né trasformarlo in permesso di lavoro. Non potranno più lavorare legalmente. Non potranno pagare un affitto legale. Non potranno farsi curare dal sistema sanitario se non in caso di emergenza. E chiunque potrà essere fermato e rinchiuso per sei mesi in un centro di detenzione, anche se non ha mai commesso reati. Tutto questo per volontà di un ministro a capo di un partito come la Lega che ha sottratto 49 milioni allo Stato italiano e ha ottenuto ottant’anni di tempo per restituirli.

«Il blocco dei ritorni volontari prima e il decreto sicurezza ora: la Lega cavalca la paura, per acquisire consenso con la mancata risoluzione dei problemi», dice Pierfrancesco Majorino, assessore alla Salute e alle Politiche sociali del Comune di Milano: «Verranno messi per strada migliaia di immigrati. Avremo a Milano novecento nuovi senzatetto tra cui mamme e bambini che finiranno sul marciapiede nelle prossime settimane. Sono situazioni critiche che da un giorno all’altro non verranno più gestite dai centri di accoglienza. Ricadranno sui servizi dei Comuni. E magari la Lega ci dirà poi che ci sono troppi stranieri in giro».
Fin dall’emergenza Siria nell’autunno 2013 il Comune di Milano ha costruito un modello di accoglienza che coinvolge associazioni e famiglie. Chi oggi sta legalmente ospitando stranieri con permesso di soggiorno per motivi umanitari, stando al decreto Salvini, una volta scaduto il documento dovrebbe metterli alla porta. È prevedibile un’ampia rete di disobbedienza civile contro un provvedimento che contrasta con l’articolo 10 della Costituzione: «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle liberta democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge».

Il ritorno volontario assistito potrebbe ridurre l’impatto del decreto sicurezza e aiutare a rientrare chi non vede più alternative in Italia. Ma nel nuovo bando per il periodo 2019-2021 il ministero dell’Interno ha inserito una difficoltà in più. Gli operatori saranno rimborsati dallo Stato soltanto se il rimpatrio andrà a buon fine. Se l’interessato riceve un diniego all’espatrio dalla questura, magari per l’esistenza di carichi pendenti, oppure come a volte capita rinuncia all’ultimo momento per paura, il lavoro fatto non sarà invece retribuito.

Adunata digitale

Questa prospettiva mette in crisi l’apertura di sportelli fissi che potrebbero sostenere il ritorno volontario come alternativa al rimpatrio forzato. Il ministro dell’Interno continua intanto a coltivare la sua piazza digitale: su Facebook ha portato il suo record europeo per un politico a tre milioni 436 mila 907 seguaci. Una piazza sempre adunata e pronta a diffondere il pensiero con migliaia di commenti e condivisioni. La cassa di risonanza non dorme mai. E sui socialmedia si muove ormai da sola. Come è accaduto qualche giorno fa quando in Friuli una giunta di destra è stata accusata di razzismo dall’opposizione di sinistra.

Codroipo è un paesone della provincia di Udine a quindici minuti di macchina dalla tomba di Pier Paolo Pasolini, lo scrittore-regista sepolto a Casarsa della Delizia. Basterebbe leggere il suo primo romanzo “Il sogno di una cosa” per ricordare quanto fossero affamati i friulani, come milioni di altri italiani, costretti a emigrare anche illegalmente all’indomani della Seconda guerra mondiale. In settimana la maggioranza Lega-Forza Italia-Fratelli d’Italia di Codroipo è diventata famosa per non aver voluto inserire nel regolamento dell’asilo nido comunale un riferimento alle diverse culture di provenienza dei bambini, preferendo una frase più adeguata al periodo politico: l’asilo, è scritto, opera «garantendo a tutti i piccoli eguali possibilità di sviluppo e di mezzi espressivi e contribuendo a superare i dislivelli dovuti a differenze di stimolazioni ambientali e culturali». Nessuno vieta il gioco con bambole africane e sicuramente le maestre sapranno destreggiarsi secondo le necessità. Ma nel linguaggio della burocrazia il concetto è sottile: ciò che sarebbe semplicemente una differenza culturale, a Codroipo viene chiamato “dislivello”. Qualcuno sta sopra e qualcun altro deve necessariamente stare sotto.
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