Intervista a Nadia Urbinati

Leggo e riprendo da un post della prof.ssa Marina Calamo Specchia, che scrive: “Adesso vorrei che tutti coloro, che si sono scagliati contro Ugo Mattei, facciano altrettanto con Nadia Urbinati.”
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Da Pasquale De Sena
in questa intervista, rilasciata a tpi il 28 dicembre 2021, Nadia Urbinati, politologa della Columbia University, mette in guardia dall’evoluzione in atto della costituzione materiale, tracciando – anche lei, come Ugo Mattei, ieri, a Torino – un paragone con alcuni eventi degli anni ’20, verificatisi a costituzione formale invariata; non si tratta, naturalmente, delle sole limitazioni di diritti fondamentali, disposte a partire dall’istituzione del green pass, ma del complesso delle vicende di rilievo costituzionale attualmente in corso di svolgimento (ivi compresa la natura del governo draghi, i suoi nessi con le istituzioni europee, la totale evanescenza del parlamento, la situazione che si verrebbe a creare con l’eventuale elezione di Draghi a presidente della repubblica)
Qui il testo integrale:
A proposito di epistocrazia e altre cose strane.
D. Professoressa Urbinati, il 2021 è stato l’anno di Draghi.
R. Non c’è alcun dubbio.
D.,E lei che bilancio ne fa?
R. (Sospiro) Una domanda complessa. Provo a partire da qui. Da quando Mario Draghi è diventato presidente del Consiglio, apologeti e detrattori si sono esercitati in giudizi apodittici, basati quasi esclusivamente sulla persona.
D.Era inevitabile.
R. Si, ma questo è sbagliato, sia nel caso dei suoi supporter che in quello dei suoi nemici. È fuorviante.
D. Spieghiamo perché.
R. Sulle qualità della persona Draghi non si discute.
Ma la qualità della persona non è il tema che mi interessa: concentrare il giudizio sull’uomo, in negativo o in positivo, svia il dibattito sul significato e le implicazioni politiche della sua nomina. Occupiamoci di sistemi politici e problemi istituzionali.
D. Cosa è esattamente questo governo tecnico dal punto di vista politico-istituzionale?
R. Ecco una bella domanda: non ci sono paragoni possibili.
D. Il governo Ciampi non è paragonabile?
R. No. Era un governo politico di centrosinistra con un premier tecnico, ed alcuni ministri non politici, ma di area. Aveva una opposizione chiara e forte in Parlamento.
D. E non è certo questo il caso di oggi. E il governo Monti?
R. Secondo me Monti ha rappresentato una mutazione genetica. Un governo nato come esecutivo istituzionale, ma che strada facendo ha cambiato natura a causa della discesa in politica del suo artefice.
D. Un percorso senza senso.
R. Per un tecnico è un paradosso. Ed infatti Monti l’ha pagata cara.
D. Ma cosa è dunque questo governo, di nuovo rispetto al passato?
R. Ci troviamo senza dubbio di fronte a una nuova e potremmo dire matura forma di tecnocrazia che ha ibridato la politica.
D. Dice questo perché dentro l’esecutivo ci sono sia tecnici che politici.
R. Vero ma non sufficiente. La mutazione epistocratica della democrazia ha mostrato se stessanei mesi della pandemia. In Italia, basta riandare agli ultimi atti di governo per vedere quanto subordinata al mito tecnico sia la posizione dei politici. L’opposto di quanto pensava Luigi Einaudi, che nel 1955 disegnò la gerarchia nei governi democratici situando i tecnici al servizio dei politici eletti.
D. E poi?
R. Poi c’è il primo vero problema prodotto da questa situazione: questo governo di unità di scopo ha semi-esautorato il Parlamento (anzi, i partiti hanno consentito questo esautoramento).
D. Non accadeva la stessa cosa anche con Monti?
R. In parte. Mai l’opposizione parlamentare è stata così ristretta, anche dal punto di vista numerico.
D. Contro il governo Draghi, oggi, ci sono solo un leader di sinistra, Nicola Fratoianni, e una di destra, Giorgia Meloni.
R. Fratoianni ha votato la sfiducia da solo, non seguito dagli eletti del suo partito. E la Meloni, che pure oggi gode di un consenso vasto nei sondaggi, quando fu votato questo Parlamento era al 4.3% dei suffragi, e nelle Camere ha una rappresentanza ancora più bassa per effetto delle correzioni maggioritarie.
D. Capisco dove vuole arrivare.
R. Questo governo nasce sull’idea del superamento della normale relazione dialettica tra maggioranza e opposizione. E in parte ha già ottenuto questo risultato.
D. Non è mai accaduto prima?
R. Mi sembra che non sia mai accaduto nell’intera storia repubblicana. Nei fatti Draghi può governare avendo un potenziale consenso plebiscitario delle Camere.
D. Eppure ci sono stati – e ci sono – diversi conflitti nella maggioranza.
R. Vero. Ma si consumano tra i leader politici e più per ragioni di spettacolo che costanziali. Il Parlamento rinuncia alla sua funzione dialettica e di sorveglianza e controllo per diventare essenzialmente luogo di ratifica di mediazioni ed equilibri contrattati altrove. Un altro tema che non può non preoccupare.
D. Questa intervista con Nadia Urbinati inizia, con una lunga conversazione, prima del famoso discorso di fine anno di Draghi, passato agli atti come quello della “autocandidatura”. Tuttavia, rileggendola oggi, sembra che la Urbinati ne prevedesse già gli esiti. La professoressa di politologia intuisce che la coesistenza tra tecnocrazia e politica va in cortocircuito sul tema del Quirinale. Ecco perché, come in un esercizio di stile, (anche dopo le polemiche che hanno accompagnato le parole di Draghi), non abbiamo dovuto correggere una sola parola. È tutto già scritto.
Professoressa, in teoria questo non è il primo governo nato su un’emergenza.
R. Abbiamo avuto un governo di solidarietà nazionale tra Dc e Psi (con l’appoggio esterno del Pci), nel 1978. Ma era stato rapito Aldo Moro! La situazione era di emergenza reale. Non é possibile il paragone tra un governo legato ad una esigenza di difendere lo stato democratico di fronte all’attacco terroristico, e la Pandemia.
D. Perché?
R. I partiti nel 1978 scelsero “volontariamente” di unirsi per fronteggiare un nemico comune. Non delegarono ad altri la loro responsabilità. E, infatti, il presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, era il più politico dei politici. Mentre oggi? Il Conte Bis è stato destituito da una manovra di Renzi. E, in seguito a quella crisi, la tecnocrazia ha preso il controllo del governo e commissariato di fatto la politica.
D. Traduciamolo in parole povere.
R. È come se il Quirinale avesse detto ai partiti: da soli non siete più in grado di governare, vi offro l’opportunità di farvi guidare da un direttore di orchestra a voi esterno. La tecnica si fa sovrana, la politica ancillare. Un rovesciamento rispetto alla visione di Einaudi sopra menzionata.
D. Perché?
R. È una conseguenza inevitabile: la politica non tollera vuoti di potere.
D. In che tempi accade?
R. Il processo arriverà a compimento nelle elezioni del capo di Stato, con la candidatura del presidente del Consiglio al Colle. Non sappiamo se l’ascesa riuscirà: di sicuro verrà tentata.
D. Di questo parliamo nel dettaglio più avanti.
R. C’è un altro paradosso. In questo gioco di simboli, Draghi assume autorevolezza non perché diventa politico, ma proprio perché non è nè diventa politico.
D. Vuol dire che la sua è una leadership a-politica?
R. È evidente che lui non ripeterà l’errore drammatico fatto da Monti candidandosi.
D. Per lei Scelta Civica fu un errore perché andó male elettoralmente o perché era comunque sbagliata, l’idea di farsi partito?
R. Monti si è infilato nella costruzione di una forza che provava a rompere il bipolarismo. E questo per me era il vero problema, non l’esiguo consenso.
D. Quale era il nodo?
R. Da candidato pescava parte dei suoi consensi a destra, e parte a sinistra. Non diceva con chi voleva governare. Era un indubbio elemento di destabilizzazione rispetto ai partiti in gara.
D. Quindi?
R. Quando i tecnici diventano di parte fanno danni. E finiscono per autodistruggersi.
D. Ma lei dice che Draghi non vuole ripetere l’errore di Monti.
R. A me sembra così. Ma non per questo è meno ambiguo. Mette in azione una logica altrettanto inquietante.
D. Quale?
R. Perché il tecnico possa governare senza intralci, la politica deve automutilarsi.
D. Però i partiti protestano, come è accaduto recentemente per la riforma fiscale.
R. Parlano e protestano, ma non sono efficaci. E non vogliono esserlo temendo quasi di limitare Draghi.
D. Perché?
R. L’azione del Parlamento è compromessa dal meccanismo delle riforme per legge-delega: in questi giorni vedono la luce differimenti, proroghe, misure tronche, mezze riforme. Tutte norme votate a scatola chiusa, in bianco o a colpi di fiducia! A volta, con poche ore di tempo per la loro analisi da parte dei nostri rappresentanti.
D. Lei sta dicendo che la tecnocrazia di Draghi non è efficiente sul piano delle risposte?
R. No, sto dicendo che questo governo è dirigista, non attuativo. Del resto le misure del PNRR richiedono regole applicative, in alcuni casi riforme di struttura, e comunque tempi non brevissimi. C’è spazio per le faziosità.
D. Perché?
R. Queste scaramucce di cortissimo respiro non fanno male solo ai partiti…
D. Cioè?
R. …A ben vedere logorano anche l’immagine del leader. Perché alla fine della catena i problemi restano. Senza dialettica parlamentare nessun supertecnico riesce a dare al Paese le sospirate riforme efficaci ed efficienti.
D. Ovvero le tante leggi delega che rimandano il problema ad un disegno normativo da precisare poi, senza risposte definitive.
R. Molto si gioca sui rinvii: la riforma del catasto entra in vigore nel 2026!
D. Perché tutti questi limiti sono così poco visibili all’opinione pubblica?
R. (Sorriso). Per cominciare? Perché non sono raccontati adeguatamente dai media.
D. Però l’Europa sembra accontentarsi anche di riforme abbozzate.
R. Oggi pare di si, ma nel tempo chi ci garantisce?
D. I parametri del rigore mutano con il mutare dei diversi governi europei.
R. L’Italia, per l’esposizione del suo debito e il suo stratosferico livello di evasione, ha problemi di modernizzazione ed efficienza. Le istituzioni e l’Unione chiedono al supertecnico di garantire con la propria credibilità quello che non riesce a fare con la sua azione. Sembra che Draghi sia da solo una garanzia.
D. Quanto può durare questo equilibrio?
R. Ecco il punto: il tempo. La vita del governo è limitata dalla fine della legislatura, e – come abbiamo detto – il supertecnico non può presentarsi alle elezioni come capo di uno schieramento. E allora, per Draghi l’unica via possibile sembra essere il Quirinale.
D. Il Colle è l’unico modo per evitare che un bluff si riveli?
R. Così sembra. Il Quirinale va bene a Draghi come una via di fuga da tutte queste contraddizioni. Ma non all’Europa, come garanzia, e secondo me non va bene neanche allo Stato.
D. Cosa intende?
R. Dal Quirinale non si governa la macchina operativa di un paese come l’Italia. L’Italia è ancora una Repubblica parlamentare.
D. Spieghiamolo.
R. La Nostra Costituzione assegna al Capo dello Stato poteri arbitrali e di garanzia. Poteri di veto e di indirizzo. Ma nessun potere esecutivo o di governo.
D. E qui si arriva alla celebre intervista di Giorgetti. Draghi al Quirinale “Guiderebbe il convoglio” da lì.
R. Mamma mia.
D. Però questa ipotesi potrebbe risolvere il problema del “termine” del governo, tranquillizzare l’Europa, e farle accettare “la fuga” del premier sul Colle. O no?
R. Questo a me pare il rischio più grande, un esito davvero terribile.
Se accadesse quel che ipotizza Giorgetti, ma con lui anche molti altri, purtroppo, saremmo di fronte ad una riscrittura “de facto” della nostra Costituzione.
D. In che termini?
R. Il leader tecnocratico acquisirebbe “di fatto” un potere di tipo presidenziale.
D. È mai accaduto in passato?
R. Oh sì… Ma sono precedenti terrificanti. Le Costituzioni che mutano di fatto, perdono i loro bilanciamenti originari, producono orrori.
D. Errori?
R. No, parlo proprio di orrori. L’esempio più vicino a noi è lo Statuto Albertino mai revocato, durante il fascismo. Mussolini fu incaricato dal Re senza che fosse violata nessuna norma.
D. E poi?
R. Lo stesso accadde ad Hitler con la costituzione di Weimar. Come è noto arrivó alla cancelleria per via elettorale.
D. Non possiamo immaginare che si ripetano involuzione autoritarie di questo tipo.
R. Ho citato due esempi estremi di forme legalistiche di acquisizione del potere, dove il Cesarismo dei leader arriva a sovrastare una architettura istituzionale. Quando questo accade si compromettono i rapporti tra i poteri dello stato previsti dalla Costituzione.
D. Quindi lei dice: è pericoloso alterare le architetture Costituzionali “de facto”.
R. Si. Questo è l’eterno problema italiano. Non si prende una strada chiara. Non si fa una riforma, costruendo un consenso nei luoghi deputati, nelle urne prima e in Parlamento poi e se necessario per via referendaria.
D. Però intorno all’idea di Draghi uomo della Provvidenza si è costruito un clima. Un consenso di pubblica opinione.
D. E dove si misura questo consenso? Chi lo misura? Parliamo della riforma delle Province….
R. Sono state abolite, ma solo a livello elettivo. E sopravvivono come istituzioni di secondo grado!
R. Da poco è stato nominato presidente della provincia di Imperia: il sindaco Claudio Scajola.
Cioè: gli stessi politici decidono con meno controllo. Aboliscono il nostro potere di eleggere consigli deliberativi e dai quali dipendono gli amministratori, non il privilegio di governare: hanno occultato il potere reale (quello degli elettori) e reso opaco il loro potere.
D. E mentre tutto questo accade dalla prossima legislatura il Parlamento sarà dimezzato.
R. C’è una convergenza di elementi preoccupanti: si restringe la rappresentanza. E questo indebolisce ancora di più la politica democratica.
D. Avere la metà di mille eletti non renderà quei rappresentanti più forti?
R. Non credo. I politici sarebbero più legittimati se avessero più legame con i cittadini. Adesso, con la politica commissariata e con la rappresentanza dimezzata sono al minimo storico. Acquisteranno più forza ma non più potere.
D. E i partiti?
R. Ma dove sono oggi? Quelli che abbiamo davanti sono a tutti gli effetti macchine di costruzione di candidature e campagne elettorali.
D. Però questa condizione viene usata per giustificare la richiesta dell’uomo forte, il tecnico della provvidenza.
R. La retorica della tecnica diventa un problema.
D. Perché?
R. Nel mondo da cui viene Draghi, quello delle società e delle istituzioni monetarie, esiste la mediazione permanente tra le élites, le gerarchie. Ma non la dialettica maggioranza-opposizione.
D. Sembra che per lei sia la funzione più importante.
R. Ma lo è! Quando un Parlamento diventa unanime la sua funzione decade e crescono i problemi di democraticità del sistema politico.
D. Perché?
R. Il parlamento non è importante solo per discutere o votare le leggi (formulate altrove, per esempio nelle commissioni), ma come struttura primaria di sorveglianza di una democrazia.
D. Lo dice da liberale?
R. Liberale in senso “bobbiano”.
D. Nel senso di Norberto Bobbio.
R. Si. Ma oggi penso che il primo vero problema siano la tenuta liberale del nostro paese e del nostro Parlamento.
D. Facciamo un esempio.
R. La rivoluzione liberale britannica nasce come l’esigenza di un potere di sorveglianza e di veto del Parlamento sulla Corona.
D. Cosa si rischia?
R. Una inedita forma di Tecno-Populismo: di unità larghissima nel nome di un fare tecnico, non partitico. Una forma di potere che riscrive nei fatti la nostra Carta, senza che nessuno abbia dato mandato per farlo.
D. Il passaggio di Draghi da Palazzo Chigi al Quirinale aumenterebbe questo rischio?
R. Oh sí! Tu puoi urlare facilmente contro il populista politico Salvini, e trovi chi ti ascolta. Ma fatichi molto di più ad opporti ai tecno-populisti.
D. Perché?
R. Il populismo è allergico al pluralismo. Lo avverte come un ostacolo: sia quando l’unità è rivendicata dl leader del “popolo” sia quando è rivendicata nel nome di una funzione da espletare. Ma le opposizioni politiche e sociali sono importanti.
D. Quali?
R. Vista l’inconsistenza sociale dei partiti, per fortuna c’è il sindacato. Per fortuna c’è Landini. Si può fare la riforma delle pensioni senza dibattito parlamentare?
D. Si mette in discussione la rappresentanza.
R. Il fenomeno di cui parliamo si sviluppa in un clima storico in cui persino le stesse basi della democrazia sono sotto pressione: a partire dal voto.
D. Si teorizza l’inefficienza di sistemi a suffragio universale.
R. Quest’anno sono usciti tre libri molto inquitanti contro la centralità del voto.
D. Citiamo il più importante.
R. “Contro la democrazia”, di Jason Brennan, filosofo e professore a Georgetown, che teorizza “l’epistocrazia”. Ovvero la contestazione della funzione del voto.
D. La democrazia “dei competenti”.
R. Esatto. In italiano il libro è uscito con la prefazione di Sabino Cassese! Non un supporter di qualche arcigna “democratura” dell’est Europa.
D. Cosa significa?
R. Tra alcuni studiosi ed élites si fa strada l’idea della superiorità dell’amministrazione (governance) sulla forme elettive della rappresentanza. Le elezioni portano conflitto, alimentano visioni di parte, promuovono incompetenti, creano problemi governabilità.
D. E non è l’unica critica alla funzione democratica del voto.
R. Anche a sinistra si affermano correnti che oppongono al primato della rappresentanza eletttale l’idea del sorteggio.
D. Una follia.
R. Alcuni politologi francesi, come Hélène Landemore, sostengono che solo sorteggio oggi realizza l’ideale classico dell’uguaglianza di tutti i cittadini in ragione dell’evoluta tecnica selettiva di campioni rappresentativi della popolazione. Questa sarebbe una rappresentanza più fedele e imparziale di quella elettorale.
D. Quindi – per fare un esempio – si sorteggiano rappresentanti per sesso, o classi sociali, o anagrafe?
R. A me sembra una follia. Ma queste correnti, a destra e a sinistra, hanno una radice comune: il superamento della competizione elettorale, e la ricerca di forme non maggioritarie di democrazia.
D. Per questo teme il dibattito sulla riforma “de facto”.
R. Se governo e Quirinale fossero intonati da un’unica voce, avremmo un problema enorme. Chi controlla?
D. E poi?
R. Qui c’è il cuore ideologico del governo tecnico. La politica non è problem solving. Non può essere analisi meccanico-amministrativa. “L’esito” non è il parametro di valutazione di legittimità. Non in una democrazia.
D. Anche se l’esito è maggiore efficienza?
R. Ma allora non serve un Parlamento, basta un consiglio di amministrazione! Se passa l’idea della dittatura dell’outpout, perché non dovrebbero andare bene le democrature dell’est Europa?
D. Cosa la spaventa?
R. La mancanza di anticorpi. Se la legittimità non è più fondata su principi normativi, ma è funzionalistica, la democrazia decade: il tecnico sovrano diventa manager, e il parlamento un Cda di nominati. Orribile. Solo in nome della sovranità della volontà dei cittadini per via di suffragio e della rappresentanza si può difendere la democrazia.

(grazie a Tristana Dini)

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