La classifica della vergogna: ecco i politici che diffondono l’odio online

Il rapporto di Amnesty sui politici che usano l’hate speech per ottenere consensi parla chiaro: si indica un bersaglio, di solito migrante o rom. E lo si fa sbranare di insulti da chi commenta il post
di Mauro Munafò e Francesca Siron

«Tolleranza zero per chi, in nome di una religione, vuole portare MORTE nel #NostroPaese meritano di non uscire più di GALERA!!!». Così Angelo Ciocca, allora candidato al Parlamento Europeo con la Lega poi eletto con quasi 90 mila preferenze, commentava su Facebook un arresto, lo scorso 17 aprile. Al post, ancora visibile online, seguono 234 risposte. L’88 per cento di queste è da considerarsi problematica per i toni utilizzati. Sei su 10 sono proprio incitazioni dirette all’odio o minacce di morte. Gli esempi, a scorrere la discussione, sono anche troppi. Uno dei primi: «Lo sapete che i maiali mangiano anche le ossa? Fateli sparire», scrive un fan di Ciocca.
Fateli sparire. La propaganda politica online sembra aver assuefatto gli elettori con schizzi di violenza come questi. Il problema è che non sono schegge. È un’industria sistematica al consenso attraverso l’odio, fatta propria da alcuni leader e partiti. Come dimostra, con nuova chiarezza, una ricerca di Amnesty che L’Espresso pubblica in anteprima.
Nel mese che ha preceduto le elezioni europee del 26 maggio scorso, 180 attivisti di Amnesty International Italia hanno passato al setaccio oltre 100 mila tra post e messaggi prodotti dai politici candidati al Parlamento Europeo e utenti che li hanno commentati, valutandoli secondo una scala che andava dai messaggi con accezione positiva a quelli problematici, fino al vero e proprio hate speech, il discorso d’odio sanzionabile anche penalmente. I risultati di questo studio non lasciano spazio ai dubbi: a Strasburgo il 2 luglio si sono insediati onorevoli che hanno fomentato l’odio attraverso i social e aizzato i loro follower con messaggi offensivi e ai limiti del dibattito civile (e in qualche caso molto oltre).

«I risultati del nostro studio mostrano come lavora la fabbrica della paura», spiega Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia: «Trasforma fenomeni in problemi e problemi in nemici; semina ansia; infine, offre sicurezza e ottiene consenso politico. Come negli anni Venti dello scorso secolo ma con la differenza dei social media, che amplificano tutto. Oggi, la realtà è che chi diffonde il discorso d’odio in un corpo sociale in preda a paura e rancori, vince. Di più, quello che spaventa è che dai risultati emerge un pezzo di paese “multifobico”, che è contro le donne, contro i rom e contro le persone Lgbti».La fabbrica dell’odio descritta dallo studio di Amnesty è forte di una produzione in serie di contenuti e di obiettivi, una manifattura di argomenti esposti su misura per scatenare la propria base di consenso. Il migrante è per esempio sempre e solo al centro della cornice quando commette reati o crimini, specialmente con vittime italiane, in una comunicazione che fa abbondante uso di parole in maiuscolo e punti esclamativi, ad accrescerne il senso del pericolo e l’urgenza. Anche quando il singolo post può sembrare una semplice sottolineatura di un caso di cronaca, la costanza con cui la pagina martella su un unico obiettivo pone le basi alla traiettoria della violenza. L’iper-esposizione di un problema rispetto ad altri infatti non solo ne ingigantisce la percezione, tema su cui gli stessi media sono corresponsabili. Ma sposta la linea delle reazioni. Innescando il peggio.Il 19 aprile la candidata mantovana della Lega Alessandra Cappellari pubblica un video, scrivendo: «Controllore aggredito a Trieste da una donna senza biglietto, che si è rifiutata di scendere, bloccando l’autobus ed i passeggeri a bordo». La donna è di colore. Il tono dei commenti è questo: «Dalle un calcio nel culo e la butti fuori mentre andate. Una di meno», scrive Sandro. «Le scimmie se lasciate uscire dalle gabbie… fanno danni…», aggiunge Angelo. «Io gli avrei dato un calcio in mezzo alle gambe a questa PUTTANA», Maria. «Io l’ho detto e lo ribadisco ancora una volta, bisogna aprire un famoso campo e metterceli dentro tutti e viaaaa», Fabrizio. E così via. Sono tutti commenti ancora ben visibili online, con nome e cognome degli autori. Il 54 per cento delle risposte al video pubblicato sulla pagina della politica mantovana, mostra il report di Amnesty, ha questo tono. È odio.

Non molto diverse sono le dinamiche applicate ai messaggi a tema religioso, prevalentemente anti Islam o contro il mondo della solidarietà. La strada e i format comunicativi indicati da big del calibro di Matteo Salvini e Giorgia Meloni, entrambi candidati “di facciata” alle ultime Europee, vengono declinati con scarsa originalità dai tanti candidati dei loro partiti in maniera quasi impiegatizia: si prende una notizia di cronaca nera con gli ingredienti di cui sopra e la si dà in pasto ai propri follower. I registri linguistici sono sempre gli stessi, e ogni messaggio sul tema potrebbe benissimo essere di un’Alessandra Cappellari, di un Angelo Ciocca o di una Daniela Santanchè: lo stesso autore non sarebbe in alcun modo capace di distinguerlo da quello dei suoi colleghi di area. Stessi argomenti, stessi strumenti.

«È una costante della modernità il fatto che in politica, così come su temi come la religione o l’orientamento sessuale, i discorsi possano portare a un alto livello di aggressività», riflette Giovanni Ziccardi, professore di Informatica giuridica all’Università Statale di Milano e autore di numerosi libri sul tema: «Ma oggi a questo si aggiunge la specificità dei social network: ovvero la possibilità di profilare in modo preciso i destinatari di un messaggio. La comunicazione dei politici online è rivolta così ai propri fan, a persone da fomentare e da esaltare. Non serve più l’arte della persuasione degli indecisi, dell’argomentazione. È il contrario: più si polarizza, ad esempio svilendo o dileggiando un nemico, più si insiste su un obiettivo, maggiore sarà l’attaccamento». Numerosi studi hanno dimostrato che in queste forme di consenso da groupie, così come nella propagazione dei messaggi sui social, solleticare sentimenti negativi funziona molto più del contrario. Così nella continua rincorsa a emergere fra i tanti cloni dell’industria della paura, l’aggressività verbale aumenta. «Io ho smesso di definirlo odio virtuale», nota Ziccardi: «Quest’odio è reale, come sono le sue conseguenze. È sufficiente parlare con le vittime per capirlo, che non è “solo uno status”, ma ogni volta una ferita precisa, e specifica, a una persona o alla sua comunità». Quando non l’innesco di un circuito alla violenza che può diventare azione, come mostra la strage tentata da Luca Traini a Macerata il 3 febbraio del 2018.

La strategia della gogna inquina. Ma non sempre paga personalmente, almeno sul piano elettorale. A diversi candidati monitorati dalla ricerca Amnesty, risultati fra i più attivi in termini di espressioni violente contro persone o categorie deboli, non è andata poi così bene alle urne. Daniela Santanchè, quarta in lista e fra i più martellanti contro gli stranieri, non è stata eletta al Parlamento Europeo. Matteo Gazzini, candidato altoatesino della Lega, e Dante Cattaneo, sindaco uscente di Ceriano Laghetto, provincia di Monza e Brianza, entrambi in corsa per Strasburgo, tutti con dei record comunicativi anti-rifugiati e anti-lgbt durante i mesi di campagna, hanno perso sulle preferenze. Così anche Caio Giulio Cesare Mussolini: impegnatissimo a odiare sui social. Senza conquistare per questo voti.Se non tutti riescono a tramutare i clic in forza elettorale, di certo resta che nello spettro degli argomenti che occupano, in positivo o in negativo, le discussioni digitali, a determinare gli obiettivi continua a essere la destra, o l’estrema destra. Altre forze sembrano silenti o incapaci di portare alternative efficaci. Anche chi adotta le strategie più presenzialiste sul web – vedi ad esempio Carlo Calenda – lo fa traducendo in parte il metodo dell’indicare un nemico, aizzando i fan. Nel suo caso, di solito, il target sono altri politici. La eco comunicativa di altri tentativi – per esempio parlare bene dell’Europa – sembra magrissima in termini di risultati. L’industria del consenso fondato sull’odio sembra destinata solo a crescere, e a diventare più violenta. Anche se una piccola incrinatura potrebbe iniziare a farsi strada. «Il nuovo regolamento europeo sulla protezione dei dati», conclude infatti Ziccardi: «Ha come obiettivo la ripresa del controllo da parte degli utenti. Ovvero dare la possibilità di capire come si viene profilati, perché nella propria “bolla” finisca ad esempio il messaggio di un politico piuttosto che di un altro. Rendendo meno automatico il labirintico far west dentro cui siamo immersi. È un percorso molto difficile, ma è un inizio».

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