La forza dei diritti

9 febbraio 2015 –
Nadia Urbinati

Il paradosso nel quale la crisi ci ha catapultato è far apparire rivoluzionario il linguaggio dei diritti sociali. Tsipras che attraversa l’Europa per ricordare ai suoi leader che le democrazie non sopravvivono se non sanno promettere alto che stagnazione, povertà e debiti, che l’austerità senza progetto confligge con le promesse delle costituzioni, non è più radicale del Presidente appena eletto. La democrazia è, essa, radicale. I leader che la impersonano non devono far altro che ricordarlo. Un promemoria che ci tenga svegli, disposti ad accettare di mettere in soffitta il discorso dei diritti, aspettando tempi migliori. E chi stabilisce quando i tempi saranno migliori?
Rimuovere gli ostacoli alla nostra libertà e eguaglianza è un lavoro dell’oggi, non di un futuro indefinito. Da quando le società hanno deciso di rinunciare alla violenza e di immettersi nel cammino della persuasione, lo slogan di battaglia ha rivestito i panni dei diritti fondamentali e delle promesse costituzionali. Non ha perso radicalità, ne ha anzi acquistata se è vero che pronunciarli fa apparire radicale un moderato.

GLI istituti di ricerca che misurano lo stato della democrazia nei Paesi occidentali segnalano un declino di fiducia dei cittadini nella capacità dei governi di determinare in meglio le sorti economiche dei loro Paesi. La crescita della corruzione e la perdita di legittimità dei partiti politici completano questo quadro piuttosto negativo. Evidenze empiriche, scrive Larry Diamond, di un decennio micidiale di «declino progressivo nell’attrazione verso la democrazia ». Decadenza, stagnazione, sfiducia rendono i governi occidentali perfino deboli competitori dei regimi autoritari, adagiati nella pratica del balbettio negativo del non possumus, quasi a sperare che i loro cittadini si adattino all’idea che diritti e principi debbano essere messi in deposito e non possano essere usati oggi. Sembra che il linguaggio dei diritti e dei principi costituzionali non si adatti ai tempi di crisi, che sia un lusso da rinviare a tempi migliori. Il pudore nell’uso di questo linguaggio è un indice della crisi che avvilisce le nostre società poiché sconfessa nella pratica quel che la democrazia promette: che i diritti siano guida del governo della vita materiale e dei bisogni. I diritti non sono sogni di visionari.
Il linguaggio dei diritti è il grano di utopia pragmatica del quale le società libere hanno bisogno affinché la politica non diventi una fotografia della stagnazione e i cittadini non vedano nello status quo l’unico orizzonte possibile. Nel suo discorso di insediamento, il Presidente Sergio Mattarella ha reiterato, quasi a farne una litania, gli articoli della Costituzione. «Sussiste oggi l’esigenza di confermare il patto costituzionale che mantiene unito il Paese e che riconosce a tutti i cittadini i diritti fondamentali e pari dignità sociale e impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e l’eguaglianza».
Il bisogno di “confermare” quel patto a noi stessi per primi, di leggere a voce alta quell’Articolo 3 che, a valutare lo stato della giustizia sociale, sembra più che una promessa una favola bella. E il Presidente lo ha letto proprio pensando che viviamo in un tempo di crisi, presentandolo come un volano per reagire. La politica che ci promette di trattare tutti e tutte con dignità di liberi e uguali non è una politica dei sogni; è una politica realistica, dotata di una bussola sicura e capace. Impegnarsi a togliere gli ostacoli che limitano la nostra libertà e eguaglianza vuol dire imprimere una svolta alla politica dell’austerità, cambiare rotta e seguire le coordinate delle eguali opportunità.

la Repubblica, 9 febbraio 2014

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