La questione politica Il conflitto di Grasso di Nadia Urbinati

Repubblica 22.12.17
È una banalità dire che il conflitto di interessi è la perenne questione della politica. Di quella moderna in modo particolare, che proprio perché radicata nel riconoscimento del ruolo centrale della sfera privata ed economica, deve dotarsi di scudi protettivi — istituzionali e giuridici — per difendere l’uguaglianza di fronte alla legge e la libertà dei cittadini. Nell’efficacia di questi scudi protettivi, che la divisione dei poteri consacra, sta quel che si chiama il governo della legge. L’opposto, ci è stato insegnato dalla tradizione repubblicana, è il governo degli uomini ovvero, oggi si direbbe, dei gruppi sociali o politici o famigliari o economici. Anche il governo di una maggioranza eletta può tracimare in governo fazioso quando occupa lo Stato in maniera quasi proprietaria. Assistiamo in questi giorni al braccio di ferro tra la Ue e il governo polacco proprio sui limiti del potere della maggioranza. Il problema del governo degli uomini contro il governo della legge non è estraneo nemmeno a noi.
Il conflitto di interessi, nella forma prepotente di cui siamo spettatori in questi giorni, è il segno di una ferita che accompagna la storia del nostro Paese dalla fine dei partiti tradizionali. Dalla discesa in campo dell’imprenditore Silvio Berlusconi, che ha cambiato ben più del modo di fare politica, preferendo l’audience all’organizzazione partitica. Ha cambiato l’ethos della politica e dei politici. Dopo due decenni, tutti sembrano oggi più assuefatti alla commistione tra affari e affarucci privati e ruoli istituzionali. Ma dalle ragioni che hanno determinato la discesa in campo di Berlusconi — da Tangentopoli — abbiamo anche appreso che gli affari sono privati anche quando sono di partito. Agire nel nome del partito invece che nel nome degli interessi di famiglia non nobilita l’azione di interferenza del privato e non è giustificabile.
Ci troviamo oggi di fronte a entrambe queste forme di commistione. Sono due i casi che richiedono una riflessione critica e imparziale, che impongono di interrogarci sulla labilità della linea che separa la persona (i suoi interessi o le sue idee politiche) e il ruolo istituzionale che essa ricopre: quello che coinvolge Maria Elena Boschi, ora sottosegretaria alla presidenza del Consiglio dei ministri, e quello che coinvolge Pietro Grasso, presidente del Senato della Repubblica. Diversissimi tra loro circa il contenuto delle ragioni del conflitto, la loro posizione è tuttavia segno di quella irrisolta questione di cui si parlava sopra: del fatto che, in relazione allo Stato e alle sue istituzioni, il diretto impegno partigiano è una forma di ragione privata, certo diversa dal più inquietante scenario dell’uso del proprio ruolo di ministro per “ chiedere” ( che è già interferire proprio per l’autorità che il richiedente ricopre) ragguagli sulla banca della quale il proprio padre è dirigente. Due privati: uno relativo a un partito; uno relativo agli affari di famiglia.
In entrambi i casi, le massime istituzioni dello Stato (il governo e il Senato) sono rappresentate a livelli alti o massimi da persone che hanno interessi esterni al loro ruolo. Questo inficia gravemente il senso dell’autonomia delle istituzioni, una condizione fondamentale del governo della legge. La richiesta di dimissioni che Mario Calabresi rivolgeva a Boschi dovrebbe essere rivolta anche al presidente Grasso, che non può essere insieme il capo di una lista elettorale che parteciperà alla prossime consultazioni e il rappresentante della seconda carica dello Stato. Non è mai successo prima d’ora nel nostro paese. Perseverare nell’accettazione della commistione di livelli confliggenti comporta screditare il senso (anche simbolico) delle istituzioni. In entrambi i casi, ci troviamo di fronte a posizioni impossibili da sostenere. E ferisce il nostro senso civico la caparbietà con la quale ciascuno resta al proprio posto. Non è giustificabile.

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