La strada per tornare alla Costituzione (di Francesco Pallante).


Saggi. «I sentieri costituzionali della democrazia» di Filippo Pizzolato, pubblicato da Carocci.

Tra le tante cose che rendevano indesiderabile il mondo prima del Coronavirus – e che dovrebbero indurci a far sì che niente sia più come prima – il cattivo stato di salute della nostra democrazia è senz’altro una delle principali.

LA SCARSA CAPACITÀ di animare una reale partecipazione dei cittadini; l’autoreferenzialità delle forze politiche organizzate; la torsione leaderistica del rapporto tra governanti e governati; lo squilibrio a favore dell’esecutivo della forma di governo; la produzione normativa sempre più pletorica, confusa, settoriale; il groviglio tra le competenze statali, regionali, locali; la permeabilità alle pressioni dei gruppi di potere organizzati; l’incapacità di progettare, e tantomeno realizzare, azioni politiche proiettate nel tempo; le inarrestabili diseguaglianze personali, sociali, territoriali: sono, questi, gli elementi di una zavorra che, anche a voler essere ottimisti sulla ripresa dell’economia, graverà, in ogni caso, sul domani dell’Italia.
Merita, dunque, recuperare attenzione alle riflessioni sullo stato della democrazia costituzionale e, in particolare, a quelle che provano a individuare una strada lungo la quale «tornare alla Costituzione», come fa Filippo Pizzolato, costituzionalista dell’Università di Padova, nel suo agile e coinvolgente I sentieri costituzionali della democrazia (Carocci, pp. 116, euro 12).

L’IDEA INTORNO alla quale è costruito il libro è che la democrazia «fondata sul lavoro» voluta dai costituenti è una democrazia che parte dal basso, non dal potere, e che riconosce e promuove ogni contributo – anche il più umile – che i cittadini e le cittadine offrono alla costruzione della società e cioè all’edificazione di una convivenza che sia accogliente per l’umano e anzi tutto per le fragilità che lo costituiscono». A partire da questa idea, Pizzolato sviluppa una riflessione che, investe i nodi principali della scienza costituzionalistica: la nozione di popolo, il pluralismo ideale e sociale, la rappresentanza, il principio di maggioranza, il diritto e il dovere di lavorare, il rapporto tra libertà e responsabilità, per poi giungere al cuore dell’argomentazione: la dimensione locale della democrazia e «la capacità trasformativa del piccolo».

CONCETTUALMENTE, centrale è la convinzione che «la maggioranza non è il punto di partenza del gioco democratico, ma il suo esito o risultato». Si tratta di una convinzione oggi incomprensibile tanto agli attori politici, quanto agli elettori, tutti convinti che la democrazia si consumi nel costruire artificialmente, costi quel che costi, una compagine parlamentare numericamente superiore, foss’anche di una sola unità, a quella degli avversari. E, invece, spiega Pizzolato, la decisione finale della maggioranza «scaturisce in modo genuino solo se è preceduta da un confronto di idee e di proposte che avvenga nella società e nello spazio delle istituzioni; e poi dalla formulazione e dalla presentazione di alternative da sottoporre al voto». Decisivo per la qualità democratica del sistema è, insomma, il momento della discussione, ampia e plurale, non quello della decisione.

È QUI CHE S’INNESTA la riflessione sulla dimensione locale della democrazia, rivolta a valorizzare le potenzialità di tutti gli elementi, anche i più piccoli, in cui si articola la società. Naturalmente, centrale è la dimensione comunale, ma a condizione di ripensare il modello istituzionale incentrato sull’investitura del sindaco, pericolosamente «esposto alla vertigine da ’sceriffo’», a favore di strutture capaci di operare da «raccordo tra la l’istituzione e la pluralistica comunità cittadina».
Ma, soprattutto, centrali sono la «ricca sperimentazione di istituti e di esperienze laboratoriali di democrazia ’partecipativa’», il coinvolgimento dei cittadini nell’amministrazione condivisa dei beni comuni, la vitalità delle tante formazioni sociali presenti sul territorio, il volontariato persino se praticato a titolo individuale. L’urgenza di Pizzolato è che nessuna energia democratica possa andare dispersa, perché la disponibilità a lasciarsi coinvolgere nella costruzione della vita collettiva è ampia e non si deve commettere l’errore di ridurre la crisi della partecipazione partitica a crisi della partecipazione tout court.
A perdere centralità, in questo quadro, sono i partiti politici: certo per sfiducia nella possibilità di un loro pieno recupero democratico, ma anche per la scelta ideale dell’autore di individuare in un «federalismo integrale» – tale, cioè, che «non valorizzi solo le autonomie istituzionali, ma coinvolga i cittadini, singoli e associati, e che abbia la sua base nella dimensione locale» – l’obiettivo da perseguire. Il rischio, però, è che, in assenza di attori a ciò preposti, la pur virtuosa ridefinizione degli interessi locali non riesca davvero a ricomporsi nella costituzionalmente corretta individuazione dell’interesse generale.
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