L’ARRINGA DI CALAMANDREI al processo a DANILO DOLCI…a proposito di MIMMO LUCANO:

“E qui affiora il secondo sul quale io mi trovo in dissidio con le premesse affermate dal P.M.:, quando egli ha detto che i giudici non devono tener conto delle “correnti di pensiero”, che i testimoni accorsi da tutta Italia hanno fatto passare in questa aula. Ma che cosa sono le leggi , illustre rappresentante del P.M. se non esse stesse “correnti di pensiero”? Se non fossero questo, non sarebbero che carta morta: se lo lascio andare, questo libro dei codici che ho in mano, cade sul banco come un peso inerte.

E invece le leggi sono vive perché dentro queste formule bisogna far circolare il pensiero del nostro tempo, lasciarvi entrare l’aria che respiriamo, mettervi dentro i nostri propositi, le nostre speranze, il nostro sangue e il nostro pianto.

Altrimenti le leggi non restano che formule vuote, pregevoli giochi da legulei; affinché diventino sante, vanno riempite con la nostra volontà.

Voi non potete ignorare, signori Giudici, poiché anche voi vivete la vita di tutti i cittadini italiani, il carattere eccezionale e conturbante del nostro tempo: che è un tempo di trasformazione sociale e di grandi promesse, che prima o poi dovranno essere adempiute: felici i giovani che hanno davanti a se il tempo per vederle compiute!

Questo è uno di quei periodi, che ogni tanto si presentano nella vita dei popoli, in cui la gloria di poter costruire pacificamente l’avvenire, il vanto di poter guidare entro la legalità questa trasformazione sociale che è in atto e che non si ferma più, spetta soprattutto ai giudici. Nella storia millenaria del nostro paese più volte si sono presentati questi periodi di trapasso da un ordinamento sociale ad un altro, durante i quali l’altissimo compito di adeguare il diritto alle esigenze della nuova società in formazione è stato assunto dalla giurisprudenza…

Anche oggi l’Italia vive uno di questi periodi di trapasso, nei quali la funzione dei giudici, meglio che quella di difendere una legalità decrepita, è quella di creare gradualmente la nuova legalità promessa dalla Costituzione.

La nostra Costituzione è piena di queste grandi parole preannunziatrici del futuro: “pari dignità sociale”; “rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana”; “Repubblica fondata sul lavoro”; “Diritto al lavoro”; “condizioni che rendano effettivo questo diritto; assicurata ad ogni lavoratore e alla sua famiglia “un’esistenza libera e dignitosa”…

Grandi promesse che penetrano nei cuori e li allargano, e che una volta intese non si possono più ritirare. Come potete voi pensare che i derelitti che hanno avuto queste promesse, e che vi hanno creduto e che chi si sono attaccati come naufraghi alla tavola di salvezza, possono ora essere condannati come delinquenti solo perché chiedono, civilmente senza far male nessuno, che queste promesse siano adempiute come la legge comanda?

Signori Giudici, che cosa vuol dire libertà, che cosa vuol dire democrazia? Vuol dire prima di tutto fiducia del popolo nelle sue leggi: che il popolo senta le leggi dello Stato come le sue leggi, come scaturite dalla sua coscienza, non come imposte dall’alto.. Da secoli i poveri hanno il sentimento che le leggi siano per loro una beffa dei ricchi: hanno della legalità e della giustizia un’idea terrificante, come di un mostruoso meccanismo ostile fatto per schiacciarli, come di un labirinto di tranelli burocratici predisposti per gabbare il povero e per soffocare sotto le carte incomprensibili tutti i suoi giusti reclami”.
Dall’arringa di Calamandrei nel processo a Danilo Dolci.
Oggi la lettura dell’ordinanza che dispone l’arresto del sindaco di Riace (che esclude che egli abbia mai perseguito un interesse o un lucro personale) ripropone molte di quelle domande

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