Le influenze della JP Morgan nella riforma costituzionale del Governo Renzi

C. Alessandro Mauceri
Solo in Italia una banca di affari americana (peraltro tra le responsabili della crisi economica e finanziaria del 2007) poteva ‘consigliare’ come cambiare la Costituzione. Certe ‘raccomandazioni’ sarebbero state presentate anche alla Spagna, alla Germania e alla Francia. Ma sono state rispedite al mittente. Da noi, invece, sono diventare la ‘riforma costituzionale’ approvata dal Parlamento di ‘nominati’. I punti in comune con il progetto di Licio Gelli e della sua P2

Si avvicina la scadenza (manca poco più di una mese) fissata per un referendum che potrebbe cambiare in modo determinante la Costituzione. E su quello che potrebbe essere uno dei “fatti” più importanti che hanno caratterizzato il mandato del governo Renzi non mancano le discussioni.

La prima (tutt’altro che secondaria) è quella sulle motivazioni che avrebbero portato a questa consultazione popolare: a differenza di quanto è stato più volte affermato da personaggi politici anche di spicco, il Governo e il Parlamento non hanno “scelto” di consultare il popolo, sono stati obbligati a farlo, dato che lo prevede la legge.

Chiarito questo, la seconda domanda, ancora più importante, è: “Chi davvero vuole cambiare la Costituzione?”.

Si tratta di un dubbio tutt’altro che secondario: negli ultimi decenni sono stati molti i governi e i partiti che avrebbero voluto farlo. E, in parte, lo hanno fatto: dal 1948 la Costituzione Italiana è stata modificata tantissime volte (nonostante molti ritengano che quella attuale sia “vecchia”).

La Costituzione italiana è stata cambiata ben sedici volte. E, quasi sempre, le modifiche hanno riguardato aspetti rilevanti: dalle pari opportunità all’obbligo del pareggio di bilancio fino all’abolizione della pena di morte anche in caso di reati militari.

Eppure, prima d’ora, nessuna di queste modifiche aveva scatenato tante polemiche. Uno dei motivi che alla base di una simile acredine potrebbe essere il fatto che a chiedere queste modifiche è un Parlamento eletto con un sistema elettorale dichiarato incostituzionale dalla Coste Costituzionale.

È evidente che permettere ad organo eletto senza rispettare le regole di cambiare le regole stesse appare a molti un controsenso, se non di diritto quanto meno ideologico.

Ma sono anche altri i dubbi che, secondo molti osservatori, renderebbero discutibili le ragioni di una simile ostinazione nel voler cambiare la legge più importante del Paese. Qualche mese fa, in occasione della presentazione del referendum, alcuni affermarono che la decisione di cambiare la Costituzione era frutto di pressioni esterne: quella di una banca.

In un documento del 2013, JP Morgan, la banca d’affari che fu tra le principali cause della crisi del 2007 che stravolse tutto il pianeta (e che, invece di essere stata chiusa per sempre, è ancora, come dimostrano questi documenti, maledettamente attiva e incisiva), pubblicò un documento dal titolo:

The Euro area adjustment: about halfway there.

In questo documento di poche pagine (solo sedici), sono riportati alcuni passaggi che farebbero pensare ad un invito al cambiamento. Il primo (riferito non solo all’Italia, ma anche ad altri pPaesi) tra le cause della crisi (invece di citare la speculazione delle banche) si parla di “debolezza dei governi”, di “protezione dei diritti dei lavoratori da parte della Costituzione”, del “diritto di protestare contro misure non gradite”.

Sarebbero queste, secondo i tecnici della banca d’affari americana, “a rendere poco graditi i cambiamenti” insieme con la presenza di “partiti populisti”. Tutti aspetti che giustificherebbero i “cambiamenti già iniziati” (tornano in mente le decisioni di cambiare la Costituzione introdotte dal governo Monti, un Governo “tecnico” che non avrebbe dovuto occuparsi di tali “cambiamenti”).

Ma non basta. “Col tempo si è diventato evidente che ci sono anche problemi nazionali di natura politica. Le Costituzioni e le soluzioni politiche nella periferia sud, messe in atto all’indomani della caduta del fascismo, hanno una serie di caratteristiche che sembrano essere inadatte a una maggiore integrazione nella regione”, si legge nel rapporto della banca d’affari.

In altre parole, secondo JP Morgan sarebbe necessario un cambiamento radicale del modo in cui è gestita la cosa comune in Italia. Un cambiamento che, grazie alla proposta del ‘nuovo che avanza’ potrebbe trasformarsi in realtà.

Viene da chiedersi se questa valutazione della banca d’affari era mirata al bene dell’Italia (e degli altri Paesi) o se, invece, non era più uno stratagemma per poter controllare meglio gli affari nel Bel Paese e potervi lucrare a proprio piacimento. Per non parlare del fatto che, se da un lato sarebbe ingenuo credere che una banca possa dare consigli per motivi umanitari (il suo fine ultimo è il profitto), dall’altro, sarebbe da ignoranti seguire i suggerimento proprio di una banca speculativa come JP Morgan, specie dopo aver visto i danni causati dalle stime errate dei suoi tecnici nel 2007.

Ciò che emerge è che esiste una ferma volontà di privare sempre di più i cittadini del potere di decidere. Una volontà di trasformare quella che fino ad ora è stata una “democrazia” (nel senso etimologico del termine, ovvero “governo del popolo”) in una “oligarchia” (“governo dei pochi”, si badi bene non necessariamente dei migliori: quella sarebbe “aristocrazia”).

È indispensabile che, quando tra un mese gli italiani andranno a votare, sappiano che quella potrebbe essere l’ultima volta in cui sono davvero chiamati a decidere delle sorti del Paese. Come ha detto il costituzionalista Gaetano Azzariti, se dovesse vincere il “SI”, si “cambierebbe tutta la parte organizzativa della Costituzione, cambia l’equilibrio tra Governo e Parlamento, di fatto abbiamo un altra repubblica …”.

Un nuovo modo di gestire la “cosa comune”, sempre più “res” (ovvero oggetto da usare per favorire gli interessi di alcuni) e sempre meno “pubblica” (cioè gestita dal popolo).

Un modo di fare che non può non far tornare la memoria a quello proposto da Licio Gelli, il discusso capo della P2. Fu lui, in un documento ritrovato in casa della figlia, a parlare di “assorbire” gli apparati democratici della società italiana dentro le spire di un autoritarismo legale. Un piano che prevedeva la concentrazione di tutte le forze politiche in due soli partiti, il controllo dei media, l’abolizione delle province, ma soprattutto, il “progetto bicamerale”: la riduzione del numero dei parlamentari e la “ripartizione di fatto, di competenze fra le due Camere” (alla Camera dei Deputati doveva competere la funzione politica e al Senato la funzione economica).

Un’idea che lui stesso rilanciò, nel 2014, in un’intervista al Il Fatto Quotidiano. Al giornalista che gli chiedeva cosa ne pensasse della modifica del Senato, Gelli rispose che il cosiddetto Piano R., il piano di Rinascita nazionale, prevedeva “una quasi totale abolizione del Senato. Riducendone drasticamente il numero dei membri, aumentando la quota di quelli scelti dal presidente della Repubblica e attribuendo al Senato una competenza limitata alle sole materie di natura economica e finanziaria, con l’esclusione di ogni altro atto di natura politica”. Un sistema che avrebbe permesso di “dare un taglio effettivo a un ramo del Parlamento che, storicamente, ha maggiore saggezza e cultura non solo politica, a favore di una maggiore velocità nel fare leggi e riforme”.

In altre parole, un accentramento dei poteri che sarebbe una novità all’interno dell’Unione Europea: Francia, Germania, Spagna (giusto per portare alcuni esempi) sono tutti Paesi governati da un sistema bicamerale. E, sebbene con notevoli differenze, in tutti questi Paesi le leggi devono essere approvate da entrambe le Camere. Anche il sistema britannico, sebbene con molte differenze, è basato sul bicameralismo. In tutti questi Paesi (citati nel documento della JP Morgan) apportare cambiamenti, però, non è facile. In Italia, invece…

Foto tratta da facciamosinistra.blogspot.com

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