Referendum taglio parlamentari: perché No Alberto Colombelli sabato 15 Agosto 2020

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Leggo le argomentazioni dei sostenitori del Sì al referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari del 20 e 21 settembre prossimi. Apprezzo che partano da alcune domande, come sempre considero assolutamente importante partire dal perché delle cose.

Le fondamentali questioni che all’interno del Partito Democratico vengono poste ai suoi sostenitori del No o a chi ancora deve decidere sono due.

La prima è quella che pone Carlo Fusaro chiedendosi come è mai possibile pensare che un Partito che è nato «a vocazione maggioritaria», un Partito il quale fino a ieri – incluse le forze di cui è erede (Pds, DS), da Achille Occhetto in poi – ha proposto con coerenza il maggioritario a doppio turno (per decenni uninominale, più recentemente anche di lista) in vista di una democrazia governante, un Partito che ha proposto e votato in Parlamento (con la sola eccezione dei drammatici 12 mesi di Governo iperpopulista Di Maio-Salvini) tutte le riduzioni di parlamentari che c’erano da proporre e votare, parimenti per decenni, e che comunque ha votato Sì anche a questa volta, come può non solo ipotizzare di votare No, ma per giunta anche solo sognarsi di farlo perché gli alleati non gli votano qui e subito una legge elettorale che potrà forse servire a ridurre (non impedire se il voto confermasse i sondaggi attuali) il successo delle destre, ma è l’esatto contrario di quanto esso Pd, appunto, ha sempre proposto?

La seconda è quella che Andrea Romano rivolge direttamente ai riformisti democratici chiedendosi come possano pensare in quanto tali solo di sostenere lo status quo, quando il modo più efficace per contrastare l’attacco alle istituzioni è invece quello di evitare di chiudersi nell’angolo della conservazione (dove si finirebbe per essere travolti da argomentazioni populistiche sostenute da un consenso molto solido, limitandosi ad un omaggio retorico ai valori del parlamentarismo) e di impegnarsi per una coraggiosa riforma democratica da cui venga più forza e più solidità per le istituzioni della nostra Repubblica.

Domande legittime che meritano una riflessione.

Così rifletto innanzitutto sul percorso che ha condotto il Partito Democratico a votare tre volte No alla riforma in Parlamento in quei dodici mesi di Governo gialloverde citati espressamente da Carlo Fusaro e a quello che ha determinato il Sì alla quarta finale votazione quando era già insediato il Governo giallorosso.

Il provvedimento era lo stesso e la coerenza con il passato di cui parla Fusaro è molto più probabile che stesse proprio nei primi tre voti che non nell’ultimo, con ogni evidenza innegabilmente dettato da logiche di real politik in esclusivo rispetto dell’accordo di formazione di un Governo nato esplicitamente con il preciso intento di fermare i rischi di una destra sovranista che stava egemonizzando pur in minoranza relativa il precedente esecutivo.

La condizione con cui il Partito Democratico aveva accettata tale presupposto fondativo del nuovo Governo era che questo provvedimento di riduzione del numero dei parlamentari non fosse fine a sé stesso e lì strettamente circoscritto, ma che risultasse accompagnato da una serie di altri interventi di riforma istituzionale (l’equiparazione dell’elettorato attivo e passivo tra Camera e Senato, l’eliminazione del principio della base regionale per il Senato necessaria per assicurare il pluralismo territoriale) che, insieme ad una nuova legge elettorale, venissero a collocarlo nell’ambito di una più organica visione ispirata da un obiettivo di difesa e rilancio delle nostre istituzioni democratiche.

Condizioni da sempre rivendicate quali prerequisiti essenziali proprio da chi ha fatto della vocazione maggioritaria la missione collettiva da porre al centro del proprio impegno, da realizzarsi attraverso una riforma strutturale della seconda parte della Costituzione che comprenda la fine del bicameralismo perfetto ed associata ad una revisione del Titolo V.

Chi ha sostenuto la vocazione maggioritaria mai nella storia ha pensato di partire dalla coda, confidando poi in aggiustamenti successivi di cui non poteva vedere garantita la realizzazione.

Questione centrale ancor più oggi considerato che dalla nascita del Governo giallorosso è passato quasi un anno e che si arriva alla vigilia del referendum confermativo della proposta di riduzione del numero dei parlamentari senza che nessuno degli interventi che le si dovevano associare sia stato né definito né tantomeno approvato.

Soprattutto, non lo si deve nascondere considerata la rilevanza della questione che interessa direttamente la nostra democrazia, alla luce della natura e della storia istituzionale dei principali partner di Governo nonché promotori della riduzione, da sempre principali fautori di riforme istituzionali volte più a ridimensionare che a rafforzare la capacità di funzionamento e quindi il potere delle nostre istituzioni democratiche.

Così non vedo elementi che possano oggi pormi in condizione di rivedere quanto già scrissi la sera di martedì 8 ottobre 2019. La Camera dei Deputati aveva da poco approvato in quarta lettura la definitiva approvazione della riduzione del numero dei parlamentari. Scorrevano nelle case di ciascuno di noi immagini di gruppi parlamentari festanti celebrare un “risultato storico”. Che si associavano a quelle di altri gruppi che pur avendo votato favorevolmente il provvedimento esprimevano chiaramente sentimenti opposti. Un clima quasi irreale che paradossalmente era la massima espressione proprio di quell’estremo realismo politico di cui oggi ci si conferma di essere vittime.

Con un limite ulteriore, dettato dal fatto che questo ora viene addirittura assunto come espressione di volontà di cambiamento dello status quo, imputando incoerenza e conservatorismo a chi invece continua a pensare di difendere e rilanciare le istituzioni democratiche non con provvedimenti isolati e fine a se stessi ma, come è invece proprio nella visione storico-culturale di ciascun riformista, con interventi organici e strutturali che nascano da un progetto complessivo d’insieme da cui sempre si è detto non si può prescindere e che, come ampiamente noto anche a chi oggi improvvisamente afferma il contrario, nessuna legge elettorale a revisione ordinaria mai potrà compensare.

Di quando il contesto sembra inevitabilmente dettare senza possibilità di resistenza, se non con strenue e improduttive ricerche di correttivi attraverso cui il senso di responsabilità cerca di porre senza risultato rimedio, il destino di una nazione.

Così sento fortemente ancora una volta l’esigenza di ritornare anche qui alla serata del 27 ottobre 2014. Quando con oltre due anni di anticipo rispetto alla ormai fatidica data del 4 dicembre 2016 ebbi il piacere di organizzare, con il supporto della Segreteria cittadina del Partito Democratico, il primo evento a Bergamo dedicato alla strutturata proposta di riforma costituzionale che insieme a tanti amici sostenni poi con ogni possibile energia nei mesi successivi.

L’occasione quella sera era la presentazione del libro dell’amico Salvatore Vassallo da un titolo che proprio oggi mi appare di un’attualità ancora più sconvolgente per chi vive nella consapevolezza che il nostro futuro dipende dalla nostra capacità di mantenere la Politica al centro della scena, quale presupposto essenziale per sperare di poter disporre ancora di una visione all’altezza della missione che si intende perseguire.

“Liberiamo la politica. Prima che sia troppo tardi” (Il Mulino, 2014) è il titolo del prezioso libro di Salvatore.

Un messaggio da urlare forte in questi giorni di fronte a quella decisione quasi unanime (con soli 14 voti contrari e 2 astenuti) dell’intera Camera che in quarta lettura ha approvato quella riduzione del numero dei parlamentari, di originaria proposta del M5S, su cui oggi fortunatamente ancora i cittadini possono esprimersi direttamente, che “colpisce direttamente il legame rappresentativo che sostanzia la nostra democrazia parlamentare, producendo un danno assai grave al principio di rappresentanza; un fatto che non è stato ancora ben messo bene a fuoco, probabilmente, dai cittadini, prima che da studiosi, commentatori o politici.” (Francesco Clementi, “Osservatorio sulle fonti”, Fascicolo 2/2019).

E a proposito di quella formula elettorale con cui oggi si vuol far credere si possano compensare gli effetti della mancanza di rappresentanza che deriverebbe da un eventuale successo del No, diceva sempre nel 2014 in quel suo libro Salvatore Vassallo che “se il veleno del proporzionalismo iniettato dei giudici della Corte costituzionale entrasse in circolo, allora sì che, di fronte alla moltiplicazione dei partiti e a un Parlamento incapace di decidere, molti comincerebbero a dire che e meglio liberarsi della politica democratica, invece di liberarla”.

Quanto prodottosi proprio su questa proposta di riduzione del numero dei parlamentari ne è la più classica evidenza. Il proporzionalismo impone scelte durissime di fronte a equilibri fragili che – in un’epoca di frammentazione politica, associata a polarizzazione delle posizioni, mobilità estrema dell’elettorato e prevalente riconoscimento di forme di leadership fortemente esibite – portano inevitabilmente ad abbassare sempre più l’asticella, facendo immancabilmente il gioco del peggiore. E al di là della retorica figlia del più estremo realismo politico, posso solo immaginare l’intima personale sofferenza soprattutto nelle ore di approvazione alla Camera in quarta lettura del provvedimento di chi con alto senso di responsabilità istituzionale si trovò costretto più che mai a fare scelte diverse rispetto a proprie prospettive ideali perseguite lungamente.

Perché così tra governabilità e rappresentanza si è giunti progressivamente fino al punto di decidere di penalizzare entrambi.

E, ancor più grave, tutto in un clima di sostanziale assordante silenzio, visto che ancor oggi la stragrande maggioranza dei cittadini nemmeno sa che il 20 e il 21 settembre prossimo si terrà un referendum confermativo privo di quorum di una norma che riducendo esclusivamente i parlamentari da 915 a 600 (con un risparmio davvero marginale sul bilancio dello Stato, secondo l’Osservatorio Cottarelli quantificato in 57 milioni di euro pari allo 0,007 per cento della spesa pubblica) condurrebbe l’Italia a diventare il Paese in Europa con il peggior rapporto tra numero di cittadini ed eletti (aumentandone la reciproca distanza), penalizzerebbe il principio di rappresentatività territoriale (a danno principalmente delle aree interne e meno popolate), comporterebbe che i parlamentari siano scelti in liste bloccate ancora più corte e totalmente nelle mani dei leader nazionali, ridurrebbe la rappresentanza degli italiani all’estero ad un deputato ogni 688.000 cittadini e ad un senatore ogni 1.375.000 (con un’evidente discriminazione determinata dalla residenza), indebolirebbe il Parlamento nei confronti del Governo, faciliterebbe il trasformismo di pochi senatori per determinare cambi di equilibri e di maggioranze, pregiudicherebbe il funzionamento delle commissioni a causa del più esiguo numero di parlamentari.

Che perlomeno si abbia piena onestà intellettuale di riconoscerlo o di assumerne adeguata consapevolezza. Presupposto essenziale affinché cinismo, tatticismo e arrivismo smettano quanto prima di essere strumento di azione politica e di realizzazione personale, quale che sia il contesto. E che ideali e valori riprendano il loro posto quali uniche virtuose guide verso un futuro di speranza da tenere quanto più possibile acceso insieme.

Così, altro che incoerenza e conservatorismo.

Con coraggio, passione, visione e perseveranza è proprio questo il momento di rilanciare davvero le nostre sfide riformiste, sempre più necessarie e sempre più attuali, votando No a questo referendum.

Non c’è contesto e contingenza che tenga.

Il nostro futuro dipende da vocazione e visione maggioritaria, da difendere rilanciando una vera e piena nuova stagione di riforme istituzionali organiche e strutturate che permettano di continuare a perseguire l’imprescindibile obiettivo di offrire finalmente anche al nostro Paese una normale democrazia dell’alternanza capace di produrre un Parlamento più efficace (partendo dalla fine del bicameralismo perfetto e non dalle demagogiche semplificazioni rappresentate dalla sola riduzione del numero dei parlamentari) e decidenti governi di legislatura risultato di trasparenti proposte elettorali su cui i cittadini si possano esprimere, senza vedere poi le proprie scelte frustrate da improvvisate coalizioni successive prive di impegni elettorali che siano chiamate a rispettare.

Con la responsabilità e nel rispetto per quanto mi riguarda dall’eredità lasciatami quale preziosa guida da Serio Galeotti nelle sue ormai lontane lezioni di Diritto Pubblico all’Università di Bergamo contenute nei suoi libri “Alla ricerca della governabilità” e “Per un Governo di legislatura”.

Una sfida chiara e prioritaria, da sempre nostra, oggi ancora di più, da accettare e condurre votando No a quella che non è una riforma strutturata ma solo una limitazione al funzionamento delle nostre istituzioni democratiche.

Facciamolo, insieme, come sempre nuotando con coraggio controcorrente, ben sapendo che le sfide perse in partenza sono solo quelle che non vengono iniziate.

“Potevano scegliere fra il disonore e la guerra: hanno scelto il disonore e avranno la guerra.” (Winston Churchill)

Continuiamo così a tenere accesa, insieme, la speranza nel nostro futuro ispirandoci sempre ai nostri veri e originali ideali.

“Il buon senso c’era ma se ne stava nascosto per paura del senso comune.” (Alessandro Manzoni, I promessi sposi, capitolo XXXII)

Al referendum del 20 e 21 settembre 2020 votiamo No, il futuro della nostra democrazia dipende come sempre da noi, nessuno escluso.

“Prima o poi arriva l’ora in cui bisogna prendere una posizione che non è né sicura, né conveniente, né popolare. Ma bisogna prenderla perché è quella giusta.” (…) “E mentre avanziamo dovremo sempre impegnarci a marciare per sempre in avanti. Non possiamo tornare indietro.” (Martin Luther King)

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