Se Renzi adotta Alfano

EDITORIALE Norma Rangeri EDIZIONE DEL 23.02.2016
PUBBLICATO 22.2.2016, 23:58
Addolcire la sberla con una carezza di studiata retorica. Il linguaggio di Renzi, come il suo modo di governare, è una scena vista mille volte, replicata domenica all’assemblea del Pd. Mentre comunicava la scelta di sacrificare le adozioni per accordarsi con Alfano e mettere la fiducia sulla legge per le Unioni civili, il segretario-presidente chiudeva il discorso lanciandosi in un encomio delle coppie gay: «Chi mai può aver paura di due persone che scelgono di avere un’unione tra loro?». Per esempio il suo governo?

Nonostante lo zuccherino, la pillola da ingoiare, per il suo partito, per le coppie omosessuali, per la società ha un sapore amaro. Sa di mezza sconfitta, di scelta opportunista, di forzatura verso un parlamento ostaggio di palazzo Chigi.

Con la scusa dell’inaffidabilità grillina, Renzi tira le briglie del partito, copre le divisioni interne al Pd mettendo in campo l’artiglieria pesante della fiducia. Dimostrando così quel che era già evidente quando per appianare le differenze, e gli insulti a mezzo stampa tra i renziani stessi, è stata tirata in ballo prima l’invenzione del “canguro” e oggi la fiducia, necessaria per sigillare il patto con Alfano. L’opportunismo grillino, indicato come causa di tutti i mali, in realtà si rivela un alibi. Lo stralcio dell’articolo 5 sulle adozioni è sempre stato, fin dall’inizio di questo tribolato iter legislativo, la vittima predestinata, il prezzo da pagare per un accordo al ribasso (la mutilazione della legge), una mediazione che non media nulla ma semplicemente concede al centrodestra quel che veniva richiesto.

Con piena soddisfazione e una punta di entusiasmo del manovriero Alfano che, adottato da Renzi, dall’articolo 18 in poi non ne sbaglia una, e ora festeggia prevedendo una più larga maggioranza, «oltre quella di governo», a favore della legge.
In tutta questa vicenda alla fine il parlamento si riduce a giocare il ruolo del comprimario. Se neppure una legge sui diritti civili può essere discussa, emendata e votata nell’aula del senato, è l’assemblea parlamentare a uscirne con le ossa rotte. Confermando così il destino prossimo futuro di Palazzo Madama, confortevole dopolavoro dei consiglieri regionali.
Le elezioni, ha ammonito Renzi, non le abbiamo ancora vinte, i voti in senato non bastano, le riforme costituzionali aspettano il vaglio del referendum «che vinceremo». Il segretario-premier ha spiegato anche molto bene che cosa significa comandare: «Potere ha senso se serve ad arrivare all’obiettivo. Il contrario di potere è impotenza». Per questo a chi nel Pd borbotta contro l’ennesima fiducia, Renzi replica con durezza: «Mi bastano quattro lettere: ciao».

Chi si oppone, chi non è d’accordo, chi dubita può cercarsi un altro partito, perché poi quel che conta è evitare come la morte il rischio di «andare alle elezioni e dover spiegare che noi chissà quando daremo i diritti». Tra il leader e il popolo dei sondaggi, non ci devono essere ostacoli, né ombre, né rischiose deliberazioni parlamentari. Poi, dopo il referendum, finalmente non ci sarà neppure più bisogno dei voti di fiducia. Senza il senato e con l’Italicum tutto filerà liscio, il parlamento diventerà l’applausometro del governo.

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