Sull’emergenza democratica


Moni Ovadia Edizione del 03.09.2019 Pubblicato 2.9.2019, 23:58

Norma Rangeri, giorni addietro, nel suo fondo dal titolo «Baciare il rospo?», concludeva l’articolo con queste precise parole: «… Però una cosa deve prevalere, la decisione di non consegnare il paese ai fascio-leghisti».

Comincio da questo pensiero conciso che rivela una sacrosanta angoscia per l’emergenza democratica che stiamo vivendo, perché lo condivido e perché, allo stato delle cose, non ha alcuna alternativa realistica.

L’alternativa al governo giallo – rosa è appunto quello fascio – leghista. So che molti compagni hanno una violenta ripulsa per questa posizione e ne capisco le ragioni ma personalmente ritengo questa democrazia parlamentare una truffa che maschera un regime oligarchico e credo che sarebbe necessaria una profonda e radicale rivoluzione culturale e sociale per superarlo.

In questo momento, dove si presenta all’orizzonte una leadership tanto autorevole per metterla in moto? E quale movimento di massa è in grado di sostenerla? Sono entrambi ancora da edificare e per farlo, come diceva Lenin bisogna studiare: «Compagni studiate, studiate, studiate ancora!».

Il trentennio berlusconiano (trentennio, perché l’epidemia è iniziata prima della discesa in campo con la diffusione egemonica di una sottocultura da postribolo) ha devastato l’ecosistema sociale, culturale e persino antropologico.

Cinque anni di Salvini – Meloni completerebbero l’opera lasciando il terreno politico contaminato di nerume tossico per anni e anni. Non nascondiamoci dietro ad un dito, una parte cospicua dei cittadini elettori italiani non si sazia mai del peggio, più gliene dai più ne vuole, e lo esprime con una bulimia inquietante.

Ora, io non ho grandi aspettative rispetto al governo Pd-Cinquestelle.

Confido che agiscano con un minimo di buon senso per dare avvio ad una bonifica del clima e ad un processo di rialfabetizzazione dei cittadini che non sanno neppure di esserlo perché la loro titolarità è stata abusata e pervertita, purtroppo a loro insaputa, da demagoghi che non dovrebbero stare al governo ma al massimo in una barzelletta da bar sport.

Il Belpaese ha conosciuto un ritorno di ignoranza senza precedenti, fatto drammatico che rende impossibile il parlar di politica.

È ora, a distanza di oltre settant’anni dalla promulgazione della Costituzione, che ogni persona sappia che noi italiani non siamo un popolo e men che meno una nazione, come lucidamente ha scritto su questo quotidiano Marco Revelli. Possiamo al massimo fregiarci della definizione di comunità nazionale di individui e genti eterogenee ed eterodosse unite dalla Carta costituzionale.

Quanti la conoscono realmente? Pochissimi, quanti ne capiscono il senso fondativo? Ancor meno. Quanti votano sapendo che la sovranità appartiene sì al popolo ma che può esercitarla solo nei limiti e nelle forme della Costituzione?

E dunque in ultima istanza sovrana è la Costituzione!

Quanti sanno che la nostra è una repubblica parlamentare e che i governi si formano nel parlamento e non vengono plebiscitati dal cosiddetto popolo (cosiddetto perché quasi metà degli italiani non votano, che un vasto numero vota per i perdenti e che perciò chi vince rappresenta solo una modesta percentuale dei 60 milioni che siamo).

Ma visto che siamo un paese di commissari tecnici affidiamoci alla metafora calcistica. Qualora il centravanti di una qualsiasi squadra per segnare raccattasse il pallone con le mani, abbattesse gli avversari che lo contrastano a cazzotti e poi arrivato davanti al portiere gli assestasse un calcio sui testicoli e collocasse la sfera dentro la porta e poi andasse verso il publico con le traccia spalancate gridando: «Goooooool», ci sarebbe subito un‘ invasione di campo, il centravanti violentatore delle regole rischierebbe il linciaggio, scoppierebbe una rivoluzione… Invece le regole della democrazia possono essere infrante, violate, sbeffeggiare, umiliate ma senza che accada nulla.

È urgente ripristinare subito le regole del gioco le quali abitano nei Diritti universali.

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