Violenza sessuale, arrestato ginecologo per abusi su paziente

Si chiama Biagio Adile e ha 65 anni. La vittima (una ragazza), invece, ne ha 28.
di Cristina Obber

Il dottor Biagio Adile, 65 anni, arrestato e accusato di violenza sessuale

Ha 65 anni Biagio Adile, il ginecologo arrestato per aver stuprato una paziente di 28 anni a Palermo. Una prima violenza sessuale si è svolta nel suo studio a dicembre 2016. La ragazza non denuncia, non ne parla con nessuno. Ma Adile persevera e invita la ragazza a presentarsi presso un ambulatorio dell’ospedale Villa Sofia-Cervello di cui dirige l’unità di uroginecologia, dove un suo collega e amico le avrebbe fatto gratuitamente ecografia di cui necessitava. Temendo di subire una nuova violenza, la ragazza predispone il cellulare per filmare l’incontro e il secondo stupro, che come temeva, avviene.
Anche in questa storia c’entra il potere di un uomo che si sente intoccabile nel suo ruolo, conosciuto e stimato da tutti. Che si sente così intoccabile non solo da stuprare una paziente ma di coinvolgerla anche in una seconda violenza. Tanto, si sarà detto, «una tunisina non mi denuncerebbe mai, saprebbe in partenza che le sue parole non varrebbero nulla contro le mie». Ed è così. Perché senza filmati, condanne collettive, senza le prove evidenti, a essere messe indubbio sono sempre le parole delle vittime e infatti anche in questa storia c’è una donna che, senza video, sta zitta.

A Ovada, in provincia di Alessandria, ad agosto 2017 un panettiere di 31 anni è stato arrestato per gli abusi sessuali nei confronti del figlio di cinque anni. La madre, separata, aveva denunciato le violenze un anno prima, ma nonostante il ritrovamento in casa dell’uomo di materiale pedo-pornografico le indagini si erano fermate e addirittura si era successivamente cercato di riallacciare i rapporti tra padre e figlio, inizialmente interrotti. «Il padre è sempre il padre», avranno pensato gli assistenti sociali che dopo i primi incontri ‘protetti’ avevano acconsentito a farsi da parte e lasciare che il panettiere e il figlio passassero da soli alcune ore. Così gli abusi erano ripresi, la madre aveva raccontato di nuove terribili confidenze e allora si sono installate le telecamere che hanno permesso l’arresto in flagranza di reato. Cioè consentendo una ulteriore violenza al bambino. Perché le parole non bastano. Perché alle parole non si crede, perché delle parole si dubita. Le parole di un bambino di cinque anni o quelle di una tunisina di 28 diventano parole di persone screditabili perché si protegge il criminale anziché la vittima, fino a prova (certa e inconfutabile) contraria. Si chiama accondiscendenza collettiva, culturale e sociale, e anche istutuzionale, alla violenza.

È un occhio di riguardo per il ‘maschile’. Lo stesso sguardo comprensivo che permette gli arresti domiciliari a Francesco Mazzone, a due mesi dal femminicidio di Nadia Orlando. È già a casa Francesco e chissà oggi cosa gli cucinerà la mamma per cena. Lo stesso sguardo che il giudice della Corte d’Appello di Reggio Calabria Gaetano Maria Amato, 58 anni, arrestato ad ottobre 2017 per pornografia minorile, avrà riservato nelle sue sentenze ad imputati per pedofilia perché si fa così, tra uomini, tra pari, ci si protegge l’un l’altro, dentro e fuori le istituzioni, negli spogliatoi di karate o a Hollywood, non fa differenza.

È un rischio anche all’interno dei gruppi di uomini impegnati pubblicamente contro la violenza e a cui si dovrebbe guardare con cautela non per pregiudizio ma perché alcun contraddizioni già emerse vengono liquidate troppo frettolosamente anche da quella parte del femminismo che pur di non perdere alleati non pretende dagli uomini la stessa coerenza e onestà richiesta alle donne. Quello sguardo indulgente nei confronti del ‘maschile’ ci rende difficile cercare di chiarire qualcosa che temiamo non possa essere chiarito e ci spaventa ogni qualvolta lo stalker o il maltrattante o l’abusante o lo stupratore non rispondono all’idea di uomo violento che siamo disposti ad accettare.

«Tutto verrà chiarito» scrivono sui social gli estimatori del professor Adile, quelli che siccome lo conoscono da anni e lo stimano probabilmente si appellano in cuor loro a un fraintendimento o chi lo sa, un complotto. Neppure di fronte alla notizia del video inequivocabile riescono ad essere obiettivi. Due pesi e due misure, sempre.

È così anche nel giornalismo: pagine su pagine se la violenza la commette un nigeriano (o se ci sono di mezzo i vip che assicurano clic). Poche righe e molto riserbo se questi maschi sono bianchi e italiani e insospettabili e per bene. Non ci sono stati articoli virali sul panettiere di Ovada così come non sarà reso pubblico, sbandierando il sacrosanto diritto di cronaca, nessun dettaglio su come il dottor Adile ha stuprato la ragazza, né la prima né la seconda volta.

Togliere potere a un patriarcato più vivo che mai è rischioso, si rischiano incarichi, ruoli, poltrone. Ci vuole coraggio per mettersi contro chi ha lo scettro del potere. Lo ha fatto una ragazza di 28 anni, pagando il prezzo altissimo di un altro stupro. Seguiamo questa vicenda, stiamo dalla sua parte.

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