LE PROMESSE TRADITE

la Repubblica.it > 2017.12.31 di Michele Ainis
Dieci puntate, dieci approfondimenti su altrettante promesse tradite della nostra Costituzione. Alla fine della giostra, ti rimane in bocca un retrogusto amaro. Anche se ne è valsa la pena, certo. Se non altro, con questo itinerario Repubblica ha reso omaggio all’utopia, messa nero su bianco settant’anni fa, da uomini e donne che ormai non sono più fra noi, nell’inferno dei viventi. Loro ci credevano, però anche no, nessuno di loro si faceva poi troppe illusioni sulle «magnifiche sorti e progressive » irrise da Giacomo Leopardi. Si spiegano così le critiche — puntute come frecce — dei più illustri fra i costituenti. Un compromesso di basso profilo, «un reciproco concedere e ottenere», aveva sentenziato Croce. Mentre Calamandrei paragonò il testo venuto fuori dal confronto tra i partiti a un libertino di mezza età, cui un’amante giovane abbia strappato via tutti i capelli bianchi per ringiovanirlo, l’anziana moglie gli abbia tolto quelli neri per renderlo più vecchio; e in conclusione il libertino rimase con la testa calva.

Però quegli accenti erano al contempo la protesta di chi avrebbe voluto spingere più a fondo l’utopia, di chi intendeva proporre una Repubblica migliore — più laica, più inclusiva, più intransigente rispetto ai nostri antichi mali. La storia, viceversa, s’è arrestata qualche passo più indietro. Come mostra l’inchiesta sviluppata da questo giornale. Numeri dolenti, che offuscano le parole scolpite sulla Carta.

Il lavoro, quando la disoccupazione giovanile viaggia al 34,7%, quando il precariato vanifica il senso stesso della tutela costituzionale. La cultura, poiché l’Italia spende un terzo rispetto agli Usa e al Nord Europa nel sostegno alla ricerca. La legalità fiscale, dato che l’evasione succhia 100 miliardi l’anno. Il paesaggio, mentre consumiamo 48 metri di costa al giorno, e intanto la cementificazione ha già divorato 23 mila chilometri quadrati in settant’anni. La scuola: dovrebbe essere «aperta a tutti», ma al classico studiano il 47% dei figli alto-borghesi, l’8% d’estrazione proletaria. La salute, dove crescono le differenze tra sistema pubblico e privato, tra regione e regione, tra Nord e Sud, sicché l’emigrazione sanitaria si è ingrossata di 507 mila malati in più dal 2015 al 2016. Le pari opportunità, smentite dalla forbice retributiva (11,9%) fra uomini e donne. E via via, dal fallimento dei concorsi al buco nero che ha inghiottito la legge sui partiti.

Eppure non è vero, non è del tutto vero, che la Costituzione abbia smarrito la sua forza propulsiva. A volgersi all’indietro, c’è un lungo rosario di diritti inanellati sotto la spinta della nostra vecchia Carta. Anche sulla condizione femminile, per fare un solo esempio: dato che nel dopoguerra il gap fra la paga oraria dei due sessi s’aggirava sul 40%, che fino agli anni Sessanta alle donne era precluso l’accesso alla magistratura (oggi sono il 52%), che questa legislatura ha toccato il record di presenze femminili in Parlamento. No, le ferite della Carta costituzionale non consistono tanto nella sua scarsa attuazione, quanto piuttosto nella sua elusione, nella sua sistematica erosione, come un tarlo che scavi dentro il legno che lo ospita. Quando un ex dirigente della Consob trova posto a Banca Etruria, quando un avvocato esercita dinanzi al tribunale dove sedeva qualche mese prima come giudice, quando un ex ministro diventa consulente del gruppo finanziario sul quale vigilava — ha scritto Sergio Rizzo il 28 dicembre — la legalità formale resta salva, ma la sostanza della legge subisce una violenza. È il fenomeno della «frode alla Costituzione», su cui nel 1943 Liet-Veaux scrisse un saggio memorabile; ma su questa tecnica siamo maestri noi italiani, ben più dei francesi.

Può darsi che in tutto ciò si sia scaricata un’energia riformatrice che non ha avuto sfogo in revisioni testuali della Carta. Può darsi che l’eterno duello fra Costituzione formale e materiale venga alimentato dall’impotenza dei riformatori, da Craxi a D’Alema, da Berlusconi a Renzi: fallito ogni progetto di palingenesi costituzionale, il sistema ha trovato comunque un proprio assetto, diverso da quello concepito nel 1947. E dopotutto qualche ritocco, almeno nella parte organizzativa, rimane pur sempre necessario. Tuttavia dopo il doppio referendum che nel 2006 e nel 2016 bocciò le due maxiriforme del centrodestra e del centrosinistra, una lezione dovremmo averla ormai imparata: meglio procedere a piccoli passi, attraverso revisioni chirurgiche, puntuali. Il meglio è nemico del bene.

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