Far tacere sempre le donne è un atto di violenza, ma se proprio volete continuare il monologo, almeno mettete a fuoco il problema.

Stamattina in piazza Duomo a Milano è stata collocata un’installazione alta 8 metri intitolata “Maestà Sofferente” dedicata al problema della violenza sulle donne. Il designer ovviamente è un uomo, perché se devi parlare di un problema delle donne, è ovvio, chiami un uomo. Il sindaco ha commentato “A me non dispiace affatto, mi sembra un messaggio contemporaneo”. Sindaco uomo, artista uomo, e con buona probabilità installazione costruita da uomini: il massimo dell’autorevolezza è sempre maschile, in particolare quando c’è di mezzo il nostro corpo. E come la rappresenti la violenza sulle donne? Violentandole: sessualizzi una poltrona, che infatti la donna, è risaputo, è solo un oggetto morbido sul quale accomodarsi; poi la decapiti e la riempi di spilloni come una bambolina voodoo. Cosa ci racconta questo oggetto, che definirei un gigantesco atto di onanismo auto-celebrativo? Che non hai capito niente di violenza sulle donne. E se la femminilità la chiami pure Maestà, a me pare una presa per il culo alta 8 metri.
Cominciamo semmai a raccontare cos’è la gerarchia di genere, che struttura nel profondo la nostra società. Iniziamo soprattutto a cambiare prospettiva: il problema non è la violenza sulle donne, ma gli uomini violenti, perciò magari visualizziamoli in una installazione gigantesca, parliamo dell’incapacità degli uomini di accettare che una donna non sia un oggetto di loro proprietà. Smettiamo di pornificare e degradare l’immagine delle donne (anche nelle poltrone), e cominciamo a raccontare gli uomini e ciò che nella cultura li spinge ad agire violenza sulle donne. Diamo una forma simbolica a questa violenza pandemica maschile che ci ostiniamo a nascondere dietro il corpo femminile. Giusto per rinnovare l’aria pesante degli ultimi millenni, potremmo anche chiamare una donna artista che abbia chiaro che non sono le tempeste emotive a scatenare la violenza, affinché crei un’opera capace di risvegliare le coscienze; magari a commentare potremmo chiamare altre donne, quelle che subiscono ogni giorno molestie, violenze, discriminazioni e pregiudizi sul loro corpo e sulle loro capacità intellettive. Ci avete proprio rotto le gonadi con l’auto-celebrazione, con il “non ci ho capito un cazzo, ma devo dire la mia”, ma soprattutto con l’ostinazione a tenere la testa sotto la sabbia. Far tacere sempre le donne è un atto di violenza, ma se proprio volete continuare il monologo, almeno mettete a fuoco il problema.

È perciò assolutamente necessario considerare la violenza non come fatto individuale ma esplicitamente come prodotto della società e manifestazione dei rapporti di classe tra uomini e donne. (Paola Tabet)

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