Il Documento Unico di Regolarità potrebbe sostituire il “green pass”


Se dovessero togliere il “green pass” cosa ne farebbero di tutti i dati fiscali e sanitari emersi con i controlli telematici? Potrebbero mai gettare tutto in un cassetto informatico e dirci la pandemia è finita? Pare starebbero studiando, complici i sindacati, l’introduzione del “permesso di lavoro”: ovvero, con una modifica costituzionale, che piace anche a Confindustria e Cgil, s’introdurrebbe il “pass lavorativo”, negabile a chi ha problemi giudiziari, fiscali, amministrativi e sanitari. Nella repubblica popolare e democratica cinese chi colto a lavorare senza “permesso di lavoro” pare venga ancora confinato nei “campi di rieducazione”: da noi probabilmente una simile misura verrebbe garantita con multe e decreti penali di condanna. Confindustria, Cgil, Cisl e Uil ne avrebbero un ovvio giovamento: permetterebbe il potenziamento dei collegamenti telematici con gli ispettorati del lavoro. Qualche dipendente del ministero dell’Economia ci scherza un po’ sopra ed afferma “ottima occasione per pagare più stipendi agli ex proseliti di Bersani, tutti passati in Confindustria dal Mise: tra loro c’è il noto pool d’esperti sul lavoro e permessi vari annessi e connessi”.

Va detto che una sorta di “permesso di lavoro” già esiste, è il Durc, acronimo di Documento Unico di Regolarità Contributiva: è il documento che dichiara la regolarità effettiva dei contributi emanati negli anni precedenti, la richiesta del Durc online è trasmessa da INPS e INAIL. Il Durc per l’impresa o il D.u.r.c. per lavoratori autonomi serve ad attestare che ci sia regolarità con i contributi Inps, Inail e Casse edili: in molti casi questo documento è già obbligatorio. Ma cosa succede a chi colto dall’Ispettorato del Lavoro a lavorare con Durc negativo o irregolare? Ci sono già da ora sanzioni ed impossibilità di ottenere lavori dalle pubbliche amministrazioni. Già per ottenere il Durc occorre il Certificato generale Casellario Giudiziale, il documento anagrafico delle sanzioni amministrative, l’attestato d’iscrizione Camera di Commercio e, ovviamente, il “Certificato carichi pendenti presso l’Agenzia delle Entrate”. Ovviamente tutte le pubbliche amministrazioni sono abilitate ad effettuare la “verifica di regolarità contributiva”, ed abilitate ad emanare il Durc nonché a controllare che chi lavora ne sia in possesso. Imprese o il lavoratori autonomi quindi devono già dimostrare di meritare il Durc. Il Durc ha una validità di 120 giorni, e questo limite il legislatore lo avrebbe posto per garantire “l’integrità del materiale del Documento e prevenirne la sua falsificazione”.

Ben si comprende che il passo è breve per favorire l’estensione del Durc, o “permesso di lavoro”, a tutti i cittadini che lavorano autonomamente od alle dipendenze di imprese sia piccole che di grandi dimensioni. Un permesso che certamente verrebbe richiesto anche ai lavoratori precari ed occasionali. Questo, secondo certi, limiterebbe ancor più l’accesso al mondo del lavoro. Permettendo d’escludere dalle liste e dalle statistiche della disoccupazione chi non avrebbe le carte in regola per ottenere il “permesso di lavoro”. Ovviamente si tratta per il momento d’una ipotesi che, secondo le imprese, consentirebbe una cernita che permetterebbe d’estromettere soggetti con carichi sia penali che amministrativi e presso l’Agenzia delle Entrate. Secondo certi benpensanti permetterebbe che la cosiddette “gente in regola” venga privilegiata nell’accesso al lavoro. È evidente che una simile trovata permetterebbe una evidente discriminazione sociale, negando alle fasce più deboli d’ottenere un contratto di lavoro. Gli italiani emigrati all’estero ricordano quanto fosse ingiusto e discriminante il metodo d’erogazione del “permesso di lavoro”. Qualcuno potrebbe pure sostenere che, la Cina è un estremo che in materia di lavoro nessuna democrazia occidentale imiterà mai. Così qualche benpensante c’invita a studiare come i permessi di lavoro vengono erogati in Australia e Canada: ma si tratta di stati con leggi lontane anni luce dal nostro “diritto del lavoro”. Ricordiamo ai lettori che nel 2020 ben ventotto senatori del gruppo 5 Stelle avevano presentato un ddl di modifica dell’Articolo 1 della Costituzione che, con la scusa di garantire il principio di laicità dello Stato, introduceva un mutamento nella parte rigida della Carta Costituzionale, permettendo così che altre modifiche potessero aggredire ben altri diritti costituzionali. Il sospetto è che, aperto il varco, si possa cambiare all’Articolo 1 “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo…”. E siccome a molti amici Confindustriali dell’attuale Esecutivo non dispiacerebbe che venissero meno gran parte delle garanzie sul lavoro, limitando sia la capacità d’impresa del piccoli che il lavoro dei meno economicamente floridi, non stupirebbe che certe modifiche passassero in quest’epoca di forte decisionismo draconiano. Non dimentichiamo che il “green pass” ha permesso alle pubbliche amministrazioni d’incamerare una miriade di dati sui cittadini, sul lavoro e sul reddito. La raccolta dei dati ed il “green pass” hanno anche rappresentato un costo burocratico-amministrativo per uffici previdenziali e sanitari. Nel Parlamento si muove così il partito trasversale (ed ombra) che non vorrebbe l’eliminazione del “green pass”, casomai un suo potenziamento ben oltre il sanitario, ovvero un “permesso di lavoro”, anticamera della “cittadinanza a punti”.

Ruggiero Capone
https://www.italiaincorsa.it/

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