Premier eletto dal popolo e democrazia rappresentativa, un quasi ossimoro

di Antonio Caputo
Il Consiglio dei Ministri ha appena licenziato un progetto di legge costituzionale che modifica la forma di governo della vigente costituzione. Una riforma che, come dichiarato da Giorgia Meloni, introduce l’elezione diretta del presidente del Consiglio e garantisce due obiettivi che dall’inizio ci siamo impegnati a realizzare: il diritto dei cittadini a decidere da chi farsi governare, mettendo fine a ribaltoni, giochi di palazzo e governi tecnici o passati sulla testa dei cittadini [e] garantire che governi chi è stato scelto dal popolo con stabilità.
La dizione «premierato» indica un sistema parlamentare nel quale il potere esecutivo sovrasta il potere legislativo e il primo ministro comanda i suoi ministri, scriveva Giovanni Sartori nel 2003, aggiungendo: l’idea è di un governo sopra l’assemblea che ribalta il governo dell’assemblea, l’assemblearismo. Va da sé, pertanto, che il premierato sta per «governo forte» nel senso di governo efficiente, di governo in grado di governare. Dire «premierato forte» è pleonastico: se premierato, è per definizione forte (strutturalmente parlando), qual è il senso, allora, della distinzione tra premierato forte e premierato elettivo? L’argomento è, qui, che l’elezione diretta del premier, del Capo del governo, lo rende forte, e che lo rende forte perché lo rende inamovibile. Vero o falso?
La differenza tra premierato forte e premierato elettivo é che la prima dizione denota un esito (la governabilità), mentre la seconda indica una strumentazione (l’elezione diretta) per cui non è detto che il premier eletto sia per ciò solo “forte”. Come non è detto che in un sistema pluripartitico e con una società civile complessa, l’uomo o la donna soli al comando, anche sulla stessa assemblea eletta dal popolo sovrano, titolare primo della sovranità, siano realmente forti. Intendendosi per forte, in un sistema democratico, chi è reale espressione di una volontà generale a sua volta espressa attraverso processi di partecipazione e confronto.
La forma di governo vigente nell’ordinamento italiano dal 1948 è quella parlamentare, che si caratterizza per la presenza di due elementi: il rapporto fiduciario tra il Governo e il Parlamento (fiducia parlamentare) e la possibilità dello scioglimento anticipato di quest’ultimo organo. La presenza dello scioglimento distingue la forma di governo parlamentare da quella assembleare, che pure mantiene in comune con la prima il rapporto fiduciario tra Governo e Parlamento.
La riforma proposta dal Governo cambia radicalmente la forma di governo, svuota le funzioni del Parlamento rappresentativo che esprime il Governo con un Presidente della Repubblica ridotto a sopramobile, unicamente chiamato sostanzialmente a ratifiche, privandolo del tutto del potere di scioglimento delle Camere e che avrà ben poco da fare per salvare la continuità della legislatura. Senza garantire un governo “forte” nell’accezione di Giovanni Sartori.
Il disegno di legge costituzionale del governo, che verrà trasferito alle Camere in ossequio all’articolo 138 della Costituzione, ha cinque articoli. Il primo eliminerebbe i senatori a vita di nomina presidenziale, resterebbero solo componenti di diritto gli ex Presidenti della Repubblica. Una scelta che fa venir meno un potere di nomina che ha conferito in passato la carica d’onore a personalità come Norberto Bobbio e Liliana Segre oltre la logica partitica. S’intende cioè premiare il cursus honorum di personalità esemplari non espressione dei partiti e portatrici di spirito pubblico repubblicano.
La soluzione proposta non sembra proprio essere una priorità, obbedendo piuttosto a una logica di svilimento del Parlamento, considerando anche che il testo non affronta invece le obiettive priorità per rendere l’ordinamento più simile ad altre democrazie parlamentari. Una sola Camera che dia la fiducia, con una seconda dotata di altre funzioni, in ipotesi riferite alla rappresentanza di autonomie territoriali, l’inserimento della proposta di revoca dei ministri con un Presidente del Consiglio, viceversa, eletto direttamente ma ostaggio della sua maggioranza e dei suoi ministri nominati dal Presidente della Repubblica, secondo la formula, invariata, dell’articolo 92 della Costituzione, la proposta di scioglimento in caso di sconfitta sulla fiducia.
L’articolo 2 eliminerebbe la possibilità di sciogliere una sola Camera. L’articolo 3 prevede l’elezione diretta del presidente del Consiglio con la scelta da parte degli elettori di una maggioranza. Senonché, in tal modo, viene costituzionalizzata la garanzia di un premio al primo raggruppamento o partito del 55 per cento dei seggi, anche se non conseguito nelle urne. Un irrigidimento rilevante e pesante per il futuro, mai dal 1948 era stata prima introdotta in Costituzione una legge elettorale.
E tuttavia, senza costituzionalizzare anche una soglia minima per la sua assegnazione, come richiesto dalla Corte costituzionale con la sentenza che bocciò il porcellum, così resuscitato e addirittura ri-costituzionalizzato, lasciando eventuali dettagli che, come esperienza insegna, possono essere peggiorativi alla legge ordinaria. La scelta di predeterminare un numero di seggi divergente dai voti espressi, e distante anche da un quorum di garanzia, è fonte di distorsione del principio di sovranità popolare e di uguaglianza del voto, ad ogni testa un voto, alla base di una democrazia parlamentare rappresentativa. Oltretutto in un Paese in cui per i sindaci occorre il cinquanta per cento dei voti più uno per avere il premio ed è pure previsto un ballottaggio tra i primi due che non abbiano raggiunto il 50 più uno. Per il premier eletto dal popolo non ci sarebbe alcuna soglia o vincolo costituzionale, ma solo una scelta discrezionale del legislatore. Un vulnus alla Costituzione preannunciato dalla sentenza che bocciò nel 2016 il porcellum.
L’articolo 4 prevede anzitutto per il Governo un doppio passaggio parlamentare di fiducia iniziale. In caso di doppio esito negativo, altamente improbabile, si va al voto anticipato. Senza alcun potere d’intervento del Presidente della Repubblica, ora previsto in funzione del primato che il Parlamento dà la fiducia. Con la riforma che capovolge il rapporto fiduciario, in tutti casi di cessazione del presidente eletto dalla carica ci potrebbe essere un secondo Governo guidato da un parlamentare della maggioranza elettorale, che si presenterebbe alle Camere ma solo per proseguire il programma precedente e in difetto nuove elezioni.
Con l’ingresso in Costituzione di un secondo premier che, pur non ricevendo alcun mandato popolare come il primo, avrebbe tuttavia il potere, solo lui, di sciogliere le Camere e la non solo potenziale creazione di un conflitto tra l’eletto premier e il secondo della sua lista o coalizione, che potrà certamente desiderare di mandare a casa il vincitore delle elezioni sostituendolo. E il paradosso di una maggior debolezza del premier eletto rispetto al secondo non eletto che gli subentri, dotato dell’arma (di ricatto) del potere di scioglimento anticipato che non ha l’altro, in un clima da congiura. Laddove al Presidente della Repubblica, oltre al potere di scioglimento delle Camere, non più compete il potere, sentiti i rappresentanti delle due Camere, di nominare il Premier. Una vanificazione delle attuali prerogative del Parlamento, la cui maggioranza è blindata dalla legge elettorale premiale, e del Presidente della Repubblica emarginato in un ruolo sostanzialmente ornamentale.
L’articolo 5 prevede l’entrata in vigore della riforma con le prossime elezioni. A monte di un testo che ancora una volta, come nel 2006 e nel 2016, pare inteso ad affossare il sistema della democrazia parlamentare indebolendo il principio sommo della separazione dei poteri. Resta la scelta, anche questa volta, di una modifica radicale della Costituzione su iniziativa del governo di turno. Una scelta che oblitera le prerogative costituenti del Parlamento di uno sforzo comune, anziché da un testo di matrice solo ed esclusivamente governativa, come accadde a quelli bocciati precedentemente.
Non dimenticando l’ammonimento di Piero Calamandrei per il quale, quando s’introducono norme costituzionali, in ossequio al principio per cui la sovranità appartiene al popolo, i banchi del governo dovrebbero essere vuoti.
Ci sarà un referendum? Richiesto da chi, al tempo della crisi dei partiti rappresentativi? La riforma sarà votata con maggioranza qualificata dei 2/3 con un testo blindato e se mai oltre i confini dell’attuale maggioranza? Ci sono anticorpi a cui interessi la salvezza della democrazia parlamentare, dopo lo svilimento della forma parlamentare in corso da lustri che ha avuto il culmine con la riforma che ha tagliato il numero di deputati e senatori, chiamati da tempo solo a prendere atto di decreti legge del governo di turno? O les jeux sont faits?
Risuona sullo sfondo l’ennesima “grande riforma”, che pare certificare la crisi della classe dirigente e del complesso della politica italiana, occupata in operazioni di pura propaganda e distrazione di massa che facciano dimenticare le sue magagne e la concretezza dei problemi da affrontare, terreno fertile per la sostituzione della dialettica e della mediazione proprie di una forma di governo parlamentare con la decisione di un organo monocratico, che raffigura , citando Carl Schmitt, «l’uomo di fiducia di tutto il popolo». Ricordando l’ammonimento, ad un tempo responsabile e drammatico, di don Luigi Sturzo, un hic Rhodus, hic salta:
La Costituzione è il fondamento della Repubblica. Se cade dal cuore del popolo, se non è rispettata dalle autorità politiche, se non è difesa dal Governo e dal Parlamento, se è manomessa dai partiti, verrà a mancare il terreno sodo sul quale sono fabbricate le nostre istituzioni e ancorate le nostre libertà.

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