Sicurezza e rispetto delle regole

Maurizio Giobbi
I peggiori effetti della globalizzazione nei Paesi industrializzati sono puntualmente arrivati quando quelli che fornivano mano d’opera di riserva (ovvero ne subivano le conseguenze) hanno cominciato a crescere e a ripartire i costi di questo sviluppo irregolare su scala mondiale.

Uno di questi effetti negativi è stato l’aumento della conflittualità e dell’intolleranza verso coloro che si sono fatti avanti per reclamare la loro parte di benessere, o più semplicemente alleviare condizioni di vita sempre più difficili, spostandosi in massa verso territori in grado – almeno potenzialmente – di offrire maggiori possibilità.

La diminuzione delle risorse a disposizione (ma più che altro l’immaturità politica e civile delle popolazioni e l’incapacità di chi ha governato per anni senza lavorare per una crescita non solo economica ma civile), hanno provocato un generalizzato spostamento a destra dell’opinione pubblica – che, ieri come oggi, ha identificato nella “destra” la referente della sicurezza sociale e del rigore, semplicemente (ma soprattutto erroneamente) contrapponendoli ai valori di inclusività propri della Sinistra.

È una delle conseguenze del pensiero semplice, quella di ragionare per antitesi: se sei per l’accoglienza, allora sei contro la sicurezza; se accetti il confronto con un’altra cultura, sei un nemico della nostra… ma le cose non stanno così, come dimostra il fallimento di ogni politica che non sia finalizzata alla coesione sociale. Perché la sicurezza a cui tutti abbiamo diritto non si garantisce costruendo muri, e neppure armando i cittadini; la strada – lunga, difficile e costellata di insuccessi – è quella di promuovere l’affermazione di istanze di giustizia sociale in grado di permettere a tutti di migliorare la propria condizione, rendendoli partecipi della società in cui vivono.

Solo attraverso l’integrazione è infatti possibile ottenere il rispetto delle regole da chi proviene da fuori; e solo mettendolo in condizione di poter vivere dignitosamente è possibile imporgli il rispetto delle regole di convivenza. Se dai una possibilità, riconosci dei diritti, è giusto esigere i corrispondenti doveri, e persino essere inflessibile nel perseguirne le violazioni.

L’errore di fondo – quello che cent’anni fa fece preferire le violenze fasciste al “disordine” delle rivendicazioni operaie – è quello di pensare che “accogliere” sia una concessione, e non un dovere, morale e legale. E – ripeto – se non riconosci all’Altro dei diritti non puoi chiedere che osservi dei doveri.

Se dovessimo ragionare per categorizzazioni, tutto il mondo sarebbe composto da nemici. Esistono uomini che picchiano le donne, ma è evidente che non tutti gli uomini debbono essere colpevolizzati per la condotta di pochi (che sono anche troppi); esistono anche persone che fanno del bene, ma non tutte le persone sono così.

La prospettiva viziata con la quale il pensiero semplice procede si riassume nel focalizzare l’attenzione su ciò che consolida il pregiudizio: se è un italiano ad uccidere una donna, si parla di “un uomo”; se è uno straniero, si precisa la sua nazionalità, creando artificiosamente uno stigma: straniero = violento. Peccato (si fa per dire) che siano i nostri connazionali nella quasi totalità dei casi a compiere – ad esempio – violenza sulle donne. E anche a controllare i vertici dello spaccio di droga e della prostituzione. Però dare la colpa ad un “Altro” ci permette di dimenticare le nostre responsabilità, individuali e collettive, in quanto, volenti o nolenti, siamo parte di una civiltà che esprime tutto questo.

Se alla base non ci fosse un colpevole vizio di fondo nel modo di pensare, apparirebbe curioso vedere come molti si affannano a difendere la loro “cultura” contro le ingerenze “straniere”. Una “cultura” che ha generato un Paese dove l’evasione fiscale è la norma, e la richiesta di “raccomandazioni” e “scorciatoie” la normalità; in cui la meritocrazia è assente, le famiglie si sfasciano e gli anziani sono affidati a badanti a nero o confinati in case di riposo. Un Paese dove le chiese sono vuote ma vanno preservate “dall’onda islamica”, le strade congestionate dal traffico, l’ambiente deturpato, l’inquinamento costantemente oltre i livelli di guardia. Una “cultura” che continua a produrre sempre nuovi nostalgici dei tempi in cui la violenza sistematica e la negazione del diritto di opinione erano la forma dello Stato.

Non si capisce bene cosa ci sia da difendere. Ma il solo fatto che – a parole, spesso sui social, e nella cabina elettorale – sempre più persone si arrocchino in posizioni conservatrici ed escludenti, sino a sconfinare nella discriminazione più retriva, ci dice molto sui motivi del nostro brutto presente e sulle prospettive ancora più oscure legate al futuro.

(immagine: Manifesto del “Nucleo Propaganda”, 1944, Biblioteca Civica di Biella, da L’offesa della Razza, p. 91)

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