Jobs act, il premier tradisce subito i giovani e i non garantiti

di  | 15 marzo 2014

Tutta la retorica sul Jobs Act, alla fine, si riduce a una flessibilitĂ  quasi selvaggia. Questo è quanto rimane dalla lettura del corposo comunicato stampa del Consiglio dei ministri del “super-mercoledì” renziano. Il miraggio del contratto unico, l’ipotesi del salario minimo o del sostegno ai disoccupati, infatti, va a finire in un progetto di legge delega la cui attuazione dipenderĂ  dal volere degli dei, conoscendo la politica italiana.

Da un decreto governativo, invece, immediatamente in vigore per essere convertito dal Parlamento, dipendono le modifiche ai contratti a tempo determinato e all’apprendistato. E si tratta di modifiche pesanti. Per il contratto a termine, infatti, scrive il testo del governo “viene prevista l’elevazione da 12 a 36 mesi della durata del primo rapporto di lavoro a tempo determinato per il quale non è richiesto il requisito della cosiddetta causalità”. Ma la novitĂ  peggiore è che viene prevista “la possibilitĂ  di prorogare anche piĂą volte il contratto a tempo determinato entro il limite dei tre anni, sempre che sussistano ragioni oggettive e si faccia riferimento alla stessa attivitĂ  lavorativa”. Rinnovare anche piĂą volte, senza limiti chiari, significa, come ha notato Tito Boeri su Repubblica, poter rinnovare un contratto di lavoro ogni settimana e quindi ben 156 volte nell’arco di tre anni. Le aziende saranno soddisfatte, ma tutti quei lavoratori precari che, pure, hanno sperato nel“contratto unico” di Renzi, che diranno? La proposta del governo pone un solo limite, quello del 20% dei dipendenti di un’azienda che possono essere assunti con contratto a tempo. Su 50 si tratta di dieci contratti, non è poco. Inoltre, nel momento in cui verrĂ  introdotto il contratto unico in cui per almeno tre anni non sarĂ  previsto l’articolo 18, le aziende potranno avere fino a sei anni di disponibilitĂ  assoluta del lavoratore, minacciato in ogni momento dal licenziamento.
La tendenza è confermata dall’apprendistato in cui verrĂ  previsto il ricorso alla forma scritta solo per il contratto e per il patto di prova. Non ci sarĂ  piĂą, invece, in forma scritta il piano formativo individuale ma, soprattutto, si elimina la norma secondo la quale “l’assunzione di nuovi apprendisti è necessariamente condizionata alla conferma in servizio di precedenti apprendisti”. Quindi, si assumeranno apprendisti, con una paga base pari al 35 % della retribuzione, e questi potranno essere costantemente sostituiti. Infine, “per il datore di lavoro viene eliminato l’obbligo di integrare la formazione di tipo professionalizzante e di mestiere con l’offerta formativa pubblica, che diventa un elemento discrezionale”. A fronte di queste norme, certe, la parte piĂą attesa del “piano del lavoro” rimane rinviata nel tempo. Tutta la materia degli ammortizzatori sociali, della riforma dell’Aspi (l’indennitĂ  di disoccupazione), la riforma dei Centri per l’impiego, il contratto unico, il riordino delle forme contrattuali diverse e lo stesso salario minimo, l’estensione della maternitĂ , finiranno in una legge-delega. Uno strumento che in genere mette su un binario morto tanti buoni propositi. In questa decisione si rintraccia una particolare “svolta” operata da Renzi. Quelli che sembravano i suoi settori di riferimento – giovani precari, partite Iva, forza lavoro intellettuale spesso in fuga dall’Italia – vedranno un peggioramento della loro condizione di lavoro e di vita.
I settori tradizionali della sinistra – il classico lavoro dipendente â€“ vedranno, invece, un piccolo miglioramento (sempre che il premier non si riveli, come ha detto lui stesso, “un buffone”). Un cambio di “base sociale” che ha spiazzato la Cgil e la minoranza Pd e che rende sempre piĂą “acrobatico” l’esperimento governativo del giovane leader democratico.
Il Fatto Quotidiano, 15 marzo 2014

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