Piano di rinascita di Gelli: cosa è stato attuato

Abolizione del Senato e delle Province. Controllo di stampa e tivù. Riforma della magistratura. Come le idee di Licio Gelli sono diventate programmi elettorali.
FRANCESCA BUONFIGLIOLI9dd1d115-7b84-41d4-993b-587606ab7078_large
È morto Gelli, viva Gelli.
Il Venerabile, spirato a 96 anni nella sua Villa Wanda ad Arezzo, a parte i segreti che si è portato nella tomba, lascia al Paese una ricca eredità.
IL PROGRAMMA P2. Bipolarismo, abolizione del Senato, abolizione delle Province, scudo fiscale, separazione delle carriere del magistrati. Sono solo alcuni punti del Piano di rinascita democratica targato P2 (redatto probabilmente intorno al 1976) che hanno trovato realizzazione negli ultimi 20 anni. Una sorta di programma elettorale che ha guidato l’azione dei governi degli ultimi 20 anni nonostante sia stato stilato da una loggia definita «criminale» ed «eversiva» dalla Commissione parlamentare d’inchiesta diretta da Tina Anselmi.
«HO SCRITTO TUTTO 30 ANNI FA». Come lui stesso del resto ha ammesso in un’intervista a Repubblica del 2003: «Guardo il Paese, leggo i giornali e penso: ecco qua che tutto si realizza poco a poco, pezzo a pezzo. Forse sì, dovrei avere i diritti d’autore. La giustizia, la tivù, l’ordine pubblico. Ho scritto tutto 30 anni fa in 53 punti».
Ma è stato davvero così? In buona parte decisamente sì.

I partiti: bipolarismo e organizzazione per club
Silvio Berlusconi con Annagrazia Calabria alla convention dei giovani di Forza Italia a Roma.
Nei «confronti del mondo politico», si legge nel Piano, occorre selezionare gli uomini a cui affidare «il compito di promuovere la rivitalizzazione» di ciacun partito. Le formazioni, per la P2, devevano essere poi in grado di «avere ancora la necessaria credibilità esterna».
I PRESCELTI. A questi prescelti sono garantiti gli «strumenti finanziari sufficienti», con i dovuti controlli, per acquisire «il predominio nei rispettivi partiti».
Se questo non riuscisse, continua il testo, i denari «devono essere utilizzati per creare due movimenti: uno a sinistra – a cavallo fra Psi-Psdi-Pri-Liberali di sinistra e Dc di sinistra – e l’altro a destra – tra Dc conservatori, liberali e democratici della Destra nazionale».
Gelli dunque preconizzava come piano B, il bipolarismo anche se nell’agglomerato di sinistra non vedeva il Pci.
VIVA LA SOCIETÀ CIVILE. Poi viene il bello: i movimenti «devono essere organizzati», sempre secondo la trama piduista, da club promotori, «composti da uomini politici ed esponenti della società civile in proporzione reciproca da 1 a 3»; l’anello di congiunzione tra i partiti e il «mondo reale».
L’assonanza con i club azzurri e con la struttura della Forza Italia delle origini non può passare inosservata. Così come il ruolo della «società civile», cavalcato (anche maldestramente) da molti partiti di destra e sinistra.
Gelli però era forse troppo ottimista.
IL RIGORE MORALE DIMENTICATO. «Tutti i promotori», si legge nel documento, «debbono essere inattaccabili per rigore morale, capacità, onestà […] Altrimenti il rigetto da da parte della pubblica opinione è da ritenere inevitabile».
Diciamo che in questo Berlusconi – iscritto alla loggia massonica nel 1978, quando era solo un imprenditore – non ha seguito pedissequamente gli ideali del maestro.
«Il mio piano rinascita ha trionfato», sottolineò Gelli a La Stampa nel 2008. «Berlusconi se n’è letteralmente abbeverato, la giustizia e le carriere separate dei giudici, le tivù, i club rotariani in politica… Già, proprio come Forza Italia. Apprezzo che non abbia mai rinnegato la sua iscrizione alla P2, e del resto come poteva? Ma anche la bicamerale di sinistra dell’88 ne aveva fatta sua una parte, sposando il riferimento al presidenzialismo…».

Stampa e televisione: giornalisti fedeli e smembramento della Rai
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La sede della Rai a Roma.
Anche la stampa e la televisione sono tasselli fondamentali del Piano gelliano che prevedeva la redazione di elenchi di «almeno due o tre elementi» per ciascun quotidiano o periodico. Questi giornalisti acquisiti devono ovviamente «simpatizzare» per i politici «prescelti».
SETTIMANALI DI BATTAGLIA. Non solo: occorre prendere possesso di «alcuni settimanali di battaglia» e «dissolvere la Rai in nome della libertà di antenna». Ma anche coordinare la stampa locale con un’agenzia centralizzata alla quale connettere «molte tivù via cavo» da «impiantare a catena in modo da controllare la pubblica opinione media nel vivo del Paese».
Sui settimanali di battaglia, è presto detto: l’ex Cav, dopo l’accordo con il gruppo Caracciolo-De Benedetti, rimase in possesso di Epoca e Panorama. Senza dimenticare il controllo di famiglia del quotidiano Il Giornale.
IL NETWORK DELLE EMITTENTI. Anche l’idea della rete di tivù via cavo ha trovato realizzazione: prima Berlusconi ha creato un network nazionale dove trasmettere identici programmi in simultanea. Poi ha coronato il progetto con il Gruppo del Biscione.
Per non parlare della Rai. Come ha ricordato Marco Travaglio, nel 2002 l’allora Casa della Libertà emanò l’editto bulgaro cancellando dai palinsesti Il Fatto di Enzo Biagi e di Sciuscià edizione straordinaria di Michele Santoro. Programmi fortunati, sia per lo share sia per la raccolta pubblicitaria. Eliminarli dunque rappresentò un danno anche economico per Viale Mazzini.
Alla tivù di Stato, poi, vennero ‘scippati’ i diritti del campionato di calcio (affare gestito dal direttore Rai – e uomo di Berlusconi – Agostino Saccà, il ministro Maurizio Gasparri e l’allora presidente della Lega calcio e vicepresidente del Milan Adriano Galliani).
IL NODO RAIWAY. Sempre Gasparri negò la vendita della maggioranza di Raiway agli americani. Un affare da 800 miliardi delle vecchie lire. Una vicenda che non è ancora finita. Visto che proprio Mediaset puntava a comprare proprio Raiway, attraverso la sua società delle torri Ei Towers lanciando un’opa di 1,2 miliardi di euro.

Sindacati: rottura tra Cgil e Cisl-Uil e abolizione dell’articolo 18
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Una fase dell’incontro tra il governo e i sindacati sulle riforme a Palazzo Chigi.
Anche i sindacati e la loro unità erano nel mirino del Venerabile.
Nel 2002, puntualmente, Uil e Cisl firmarono nel 2002 il “patto per il lavoro” accettando la modifica dell’articolo 18. Ma la battaglia alle sigle è continuata ben oltre Berlusconi.
RENZI E L’ARTICOLO 18. Perché dove non era riuscito l’ex Cav c’è arrivato Matteo Renzi. L’abolizione dell’articolo 18 rappresenta solo l’inzio della rottura pensata dall’esecutivo renziano. Un rischio calcolato per il premier e i suoi visto che il ‘consenso’ raccolto dai sindacati non supera il 10%.
Concetti come concertazione rientrano tra quelli da rottamare, perché «responsabili dello stallo» italico.

Lavoro: limitazione del diritto di sciopero
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Il ministro della cultura Dario Franceschini.
Anche il diritto di sciopero doveva essere limitato. E in questo, le ultime uscite del ministro dei Beni culturali Dario Franceschini e di Renzi stesso dopo le polemiche sul Colosseo e Pompei non sono molto dissimili dal progetto piduista.
Nel Piano, infatti, era previsto «l’obbligo di preavviso dopo aver espedito il concordato; l’esclusione dei servizi pubblici essenziali (trasporti; dogane; ospedali e cliniche; imposte; pubbliche amministrazioni in genere) per garantirne il corretto svolgimento; e la limitazione del diritto di sciopero alle causali economiche ed assicurare comunque la libertà di lavoro».
«NESSUN ATTENTATO…». «Con questo decreto legge non facciamo nessun attentato al diritto allo sciopero ma diciamo solo che in Italia, per come è fatta, i servizi museali sono dentro i servizi pubblici essenziali», ha dichiarato il premier lo scorso 19 settembre, annunciando le misure prese dal governo dopo che un’assemblea sindacale aveva tenuto chiusi per alcune ore il Colosseo e i Fori Imperiali.

Giustizia: separazione delle carriere e responsabilità civile dei magistrati
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L’ex ministro della Giustizia Roberto Castelli in piazza a Roma.
Nei piani di Gelli rientrava anche la magistratura. Pure in questo caso era previsto un «raccordo sul piano morale e programmatico ed elaborare un’intesa diretta a concreti aiuti materiali per poter contare su un prezioso strumento, già operativo nell’interno del corpo anche ai fini di taluni rapidi aggiustamenti legislativi che riconducano la giustizia alla sua tradizionale funzione di elemento di equilibrio della società e non già di evasione».
IL COPYRIGHT DEL VENERABILE. Le modifiche più urgenti riguardano la «responsabilità civile dei magistrati e dei giudici» nonché la separazione delle carriere. «La separazione delle carriere ha un padre», scriveva Piercamillo Davigo nel 2012, «che l’ha sempre rivendicata come personale copyright: Licio Gelli, fondatore della loggia massonica P2. È stato lui a lanciare questo disegno, codificandolo nel suo Piano di rinascita democratica».
Eppure la separazione delle carriere aveva tra i suoi sponsor giudici come Giovanni Falcone ed era stata messa in atto nella maggior parte dei Paesi europei, ben prima della stesura del Piano.
L’IMPEGNO DI CASTELLI E ALFANO. In Italia del tema però si era interessato il Guardasigilli Roberto Castelli nel 2002 che, tra le altre cose, intendeva sottrarre al Csm la formazione e la carriera dei magistrati. Senza dimenticare la proposta di Alfano del 2009.
La responsabilità civile dei magistrati, invece, è diventata legge il 19 marzo 2015. E prevede «l’ampliamento delle possibilità di ricorso da parte del cittadino, l’innalzamento della soglia economica di rivalsa fino a metà stipendio, il superamento del filtro, l’obbligo di azione in caso di negligenza grave».
TOLLERANZA ZERO CONTRO GLI «PSEUDO POLITICI». L’Italia di Gelli doveva poi essere ripulita «dai teppisti ordinari e pseudo politici e dalle relative centrali direttive», ma solo a condizione «che la magistratura li processi e condanni rapidamente inviandoli in carceri ove scontino la pena senza fomentare nuove rivolte o condurre una vita comoda».
Un pugno duro contemplato dal pacchetto sicurezza, approvato dopo i tentativi di D’Alema dal governo Amato nel 2001.
Cavalcato dal governo Berlusconi, ma anche mantra della Lega salviniana e dei sindaci sceriffi.

Parlamento: fine bicameralismo e riforma del Senato
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Luca Lotti e il Ministro delle Riforme Maria Elena Boschi in Senato durante il voto finale alla Riforma Costituzionale.
L’architettura dello Stato gelliana prevedeva la fine del bicameralismo perfetto e per il Senato, «una rappresentanza di secondo grado, regionale, degli interessi economici, sociali e culturali», con competenze ridotte alle materie economico-finanziarie.
Non molto distante dalla riforma del governo Renzi, di cui il Venerabile si è attribuito la paternità. «Per quanto riguarda Palazzo Madama», disse in un’intervista al Fatto del 2014, «mi fa piacere pensare che, nonostante tutti mi abbiano vituperato, sotto sotto mi considerano un lungimirante propositore di leggi».
L’ABOLIZIONE DI PALAZZO MADAMA. E, ancora, «riguardo al Piano di Rinascita democratica, sfogliando le pagine di quel testo, si ritrova – nella parte riguardante le riforme istituzionali – una quasi totale abolizione del Senato. Riducendone drasticamente il numero dei membri, aumentando la quota di quelli scelti dal presidente della Repubblica e attribuendo al Senato una competenza limitata alle sole materie di natura economica e finanziaria, con l’esclusione di ogni altro atto di natura politica. L’intento era ed è ancora oggi chiaro. Dare un taglio effettivo a un ramo del parlamento che, storicamente, ha maggiore saggezza e cultura non solo politica, a favore di una maggiore velocità nel fare leggi e riforme».

Costituzione: via libera al presidenzialismo
Giorgio Napolitano.
«Il presidenzialismo è una mia idea», sentenziò Gelli in una intervista del 2013 e Giorgio Napolitano «ci stava pensando dai tempi di Craxi. Ora il piano è compiuto, sembra dire, nel nome dei Letta».
Napolitano, aveva aggiunto il Venerabile, «ci ha riprovato con Monti nei tempi dell’imposizione dell’incauto tecnocrate alla presidenza del Consiglio, dopo averlo fatto senatore a vita in pochi minuti e dopo averlo in parte sponsorizzato nella suicida campagna elettorale dello scorso inverno. Oggi l’asse che pare vincente ha un solo cognome: Letta, magnificamente trasversale».
LA REVISIONE DELLA COSTITUIZIONE. Il piano consisteva «nella revisione della Costituzione del ’48 per trasformare l’Italia da repubblica parlamentare in repubblica presidenziale; si prevede quindi la proclamazione di uno stato di “armistizio sociale” per un periodo non inferiore ai due anni».
Fa una certa impressione rileggere le dichiarazioni di Berlusconi del 2013 circa la «fine di una guerra fredda, di una guerra civile». L’ex premier plaudiva a «un governo che essendo composto da centrodestra e centrosinistra» poteva «fare le riforme».
I DESIDERATA DI SILVIO. Un esecutivo forte secondo il leader di Forza Italia, in grado di concentrarsi su una riforma della Costituzione che portasse l’Italia «all’elezione diretta del capo dello Stato». Un’ipotesi che non disdegnava nemmeno Renzi, almeno quando era sindaco di Firenze. Tanto che nel 2013 in un’intervista a più quotidiani europei aveva aperto la strada alla modifica costituzionale. Salvo poi frenare una volta diventato premier. Nel 2014 si disse disposto a «una cauta apertura al presidenzialismo» proposto dall’ex Cavaliere. Ma non prima di aver portato a casa la riforma del Senato.
IL RITORNO DEI SAGGI. Gelli aveva anche immaginato un Comitato di coordinamento con pieni poteri per «procedere al riesame di tutta la legislazione in vigore».
E, in questo caso, tornano alla mente i 35 saggi – ma con funzione consultiva – nominato dall’ex premier per portare a compimento le riforme.

Leggi: sì al diritto di cittadinanza e abolizione delle Province
Graziano Delrio, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, e Maria Elena Boschi, ministro per le Riforme, dopo l’approvazione al Senato del ddl Province.
Tra gli obiettivi a lungo termine, Gelli pensava a una «nuova legislazione anti urbanesimo subordinando il diritto di residenza alla dimostrazione di possedere un posto di lavoro e un reddito sufficiente (per evitare che saltino le finanze dei grandi Comuni)».
IUS SOLI TEMPERATO? Temi che sono tornati alla ribalta con la questione immigrazione e lo ius soli temperato, secondo il quale diventa cittadino italiano chi è nato nel nostro Paese da genitori stranieri. Ma almeno uno dei due deve essere in possesso del permesso di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo. Non solo: per ottenere questo tipo di permesso la famiglia deve poter dimostrare di avere un reddito minimo non inferiore all’assegno sociale annuo.
Non solo. Il Piano prevedeva una «riforma della legge comunale e provinciale per sopprimere le Province e ridefinire i compiti dei Comuni dettando nuove norme sui controlli finanziari».
LA RIFORMA DELRIO. L’obiettivo è stato solo in parte realizzato dal governo Renzi con la riforma Delrio del 2014. Gli enti infatti non spariranno del tutto, ma vedranno ridotti i propri compiti e cesseranno di essere organi elettivi. Le nuove Giunte saranno composte da sindaci, assessori o consiglieri eletti nei Comuni che rientrano nel territorio provinciale. E non percepiranno alcuna indennità accessoria.

Economia: donazioni esentasse e scudo fiscale
L’Agenzia delle Entrate ha varato il procedimento per la voluntary disclosure, il procedimento di «pacificazione fiscale» tra il contribuente e l’amministrazione, a iniziativa del contribuente stesso.
Tra i provvedimenti economico-sociali della P2 spiccano due obiettivi: «L’abbattimento delle aliquote per donazioni e contributi a fondazioni scientifiche e culturali riconosciute, allo scopo di sollecitare indirettamentela ricerca pura e il relativo impiego di intellettualità» e «la concessione di forti sgravi fiscali ai capitali stranieri per agevolare il ritorno dei capitali dall’estero».
Già il secondo governo Berlusconi aveva abolito completamente le imposte sulle donazioni, e ridotto quelle sulle successioni.
LA BACCHETTATA DELLA UE. Sulle donazioni lo scorso settembre è intervenuta pure Bruxelles. Il rapporto Riforme fiscali negli Stati membri dell’Unione europea redatto dalle direzioni generali Affari economici e Fiscalità della Commissione Ue chiede all’Italia di «spostare il carico fiscale su consumi, immobili e donazioni».
Per quanto riguarda l’agevolazione del rientro dei capitali, basta ricordare lo scudo fiscale deciso da Tremonti nel 2001. Replicato poi nel 2002 e nel 2009.
VOLONTARY DISCLOSURE. Nonostante poi Renzi nelle sue Proposte per cambiare l’Italia del 2011 avesse escluso in modo netto il ricorso a condoni e scudi, è arrivata la voluntary disclosure, che permette il rientro dei capitali godendo di sanzioni e pene ridotte. Finora, stando a Mef e alle Entrate, sono stati raccolti 4 miliardi di gettito.

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