Riccardo Gazzaniga L’uomo che disse no alle deportazioni.


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La macchia della Shoah non riguardò solo la Germania e l’Austria, cuore del Reich nazista e i territori dal Reich occupati: molti paesi furono collaborazionisti, anche la nostra Italia. L’Ungheria dell’ammiraglio Horthy, la Francia di Vichy.
Ma ci furono alcuni stati che trovarono gli anticorpi di umanità necessari a respingere l’orrore.
La piccola Bulgaria, quando Hitler sale al potere, si allea con la Germania: lo Stato è un regime dittatoriale guidato da Bogdan Filov, con un re debole e un esercito militarmente impossibilitato a opporsi al Reich. Alleandosi con Hitler la Bulgaria non solo si mette al sicuro da invasioni, ma ha anche un sostegno per riprendersi Macedonia e Tracia, perse alla fine della Prima Guerra Mondiale.
La Bulgaria non è un paese antisemita, gli ebrei sono integrati da generazioni fra la sua gente, dunque il fanatismo razzista tedesco sembra un problema che non riguarderà il paese.
L’Alleanza appare una soluzione accettabile anche al magistrato Dimitar Pešev, vice presidente del Parlamento, che ritiene Hitler un eccellente statista.
Ma Pešev capisce che il suo paese ha firmato un patto con il diavolo quando anche la Bulgaria si deve piegare alla volontà di Hitler e mettere ai voti le leggi razziali, nel 1940.
Pešev, che è legatissimo al suo amico di infanzia ebreo Jako Baruch, tace, non interviene nella discussione in aula durante il voto a favore delle leggi razziali: aspetta, spera che il brutto sogno passi, in fondo le leggi sono approvate nella forma, ma nella sostanza gli ebrei bulgari non sono soggetti a deportazioni e non subiscono conseguenze mortali.
Tutto cambia il 7 marzo 1943.
Jako Baruch lo raggiunge alla porta di casa con una notizia sconvolgente: il ministro dell’Interno Gabrovski sta trattando segretamente per consegnare subito tutti gli ebrei bulgari al Reich nazista e inviarli nei campi di concentramento.
Parliamo di un numero vicino a 50.000 persone.
La trattativa deve restare occulta perché la comunità ebraica è ben integrata in Bulgaria e il governo teme che la popolazione non approvi la deportazione. Per questo bisogna darne notizia solo a cose fatte.
È questione di giorni, forse di ore, perché l’ordine parta.
A questo punto Dimitar Pešev, di fronte al materializzarsi concreto dell’orrore, riscatta tutti gli errori del passato.
Raduna una decina di colleghi parlamentari, va direttamente nell’ufficio del ministro Gabrovski e, in un confronto drammatico, chiede e ottiene che le deportazioni vengano momentaneamente sospese. Poi inizia a chiamare di persona le prefetture per accertarsi che non ci siano iniziative per deportare gli ebrei.
Pešev sa che la sua posizione è debole, perché non ha un forte consenso politico alle spalle e l’operazione è sospesa, ma non annullata. Non ci sono atti ufficiali e i cittadini non sanno ancora nulla.
Pesev è solo, rischia non solo il fallimento ma probabilmente anche la vita.
«Per evitare l’irreparabile e raggiungere l’obiettivo bisognava porre la questione in Parlamento.»
Pešev scrive di suo pugno una lettera al Parlamento e la fa firmare ad altri quarantuno deputati. Alcuni colleghi lo accolgono con sollievo come se non aspettassero altro che qualcuno che trovasse il coraggio di ridestarli.
A volte il bene ha bisogno solo che qualcuno gli dia la possibilità di manifestarsi.
Alla fine Pešev si reca dal presidente del Parlamento per annunciargli la sua intenzione.
Quello gli risponde duro, freddo: «Questo non ti conviene, Pešev».
Ma lui è fermo. «La presenterò lo stesso», risponde, e così fa, leggendola in persona davanti all’Assemblea.
“Non possiamo credere che ci siano dei piani per deportare questa popolazione dalla Bulgaria, come suggeriscono alcune voci a danno del governo.
Tali misure sono inammissibili, non solo perché queste persone – cittadini bulgari – non possono essere espulse dalla Bulgaria, ma anche perché ciò avrebbe serie conseguenze per il paese. Sarebbe un’indegna macchia d’infamia sull’onore della Bulgaria, che costituirebbe un grave peso morale, ma anche politico, privandola in futuro di ogni valido argomento nei rapporti internazionali.
Un minimo livello di legalità è necessario per governare, come l’aria è necessaria alla vita.
L’onore della Bulgaria e del popolo bulgaro non è solo una questione di sentimento, è soprattutto un elemento della sua politica. È un capitale politico del valore massimo ed è per questo che nessuno ha il diritto di usarlo indiscriminatamente se il popolo intero non è d’accordo”.
La lettera rimbalza fuor dal palazzo si diffonde immediatamente tra la gente.
L’ala più estremista del governo deve arretrare, la popolazione bulgara inizia a premere su re Boris III, che si trova costretto a revocare a Hitler la disponibilità già data a deportare gli ebrei.
La ritorsione contro Pešev è immediata, e viene deposto dalla carica di vicepresidente del Parlamento mentre gli estremisti del paese lo accusano di proteggere gli ebrei e gli lanciano pietre contro la casa.
Viene minacciato di essere consegnato ai tedeschi, una volta che la Germania avrà vinto la guerra.
Ma sono 48.000 gli ebrei bulgari che si salvano dalla deportzone grazie alla presa di posizione di Dimitar Pešev.
48.000 persone salvate da una lettera.
Quando i sovietici entrano da est in Bulgaria Dimităr Pešev diventa un nemico. Lo accusano, paradossalmente di aver sostenuto un governo filonazista e antisemita, gli rinfacciano di aver salvato ebrei in cambio di denaro e ritorno politico.
Al suo processo sono diversi testimoni ebrei a scagionarlo, eppure la corte è ancora intenzionata a condannarlo a morte, destino che tocca ad alcuni dei deputati che hanno firmato la sua lettera.
Pešev evita la forca perché anni prima, come ministro della Giustizia, ha salvato dalla condanna l’uomo che ora, nel nuovo governo filorusso, è ministro della Guerra.
Subisce però una condanna a 15 anni di prigione, ne sconta 1, viene liberato e interdetto dalla professione di magistrato, mentre il merito principale del salvataggio degli ebrei bulgari viene attribuito al nuovo leader politico Živkov, alla guida di un regime filosovietico vicino alla dittatura al punto di candidarlo al Nobel per la Pace. L’idea, però, è talmente bislacca e sprovvista di prove concrete che nessuno ha il coraggio di portarla in fondo.
In tutto questo Dimităr Pešev finisce emarginato e senza soldi, mantenuto dalla sorella, eppure continua a ricevere lettere e visite di ebrei fuggiti in Israele per ringraziarlo di persona del suo coraggio. Scrive le sue memorie, ma non spende una parola sulle bugie che circolano a proposito della scampata deportazione.
Sarà una archivista del nuovo governo a riscoprire il nome di Pešev fra quelli cancellati dalla storia bulgara e incontrarlo.
«Quell’uomo così distinto e discreto mi fece capire che si potevano compiere atti di grande umanità anche se si militava in quello che fino ad allora io avevo considerato il campo nemico.»
Di fatto il salvatore di quasi 50.000 ebrei muore pressoché dimenticato nel suo paese, nel 1973.
Ma, in quello stesso anno, è la commissione dello Yad Vashem, l’Ente nazionale per la Memoria della Shoah di Israele, a riabilitare la sua memoria e ad attribuirgli il titolo di “Giusto tra le nazioni”.
Dimităr Pešev ci ricorda l’importanza e la forza degli atti politici e delle parole, capaci di fermare la macchina del male.
«Il silenzio sarebbe stato contrario alla mia coscienza e al mio senso di responsabilità di deputato e di uomo, e mi sarei reso complice di tutto ciò che sarebbe potuto accadere in seguito.»
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Questa storia è contenuta nel mio libro “Come fiori che rompono l’asfalto” (Rizzoli).
https://rizzoli.rizzolilibri.it/…/come-fiori-che…/
La convidisione è assolutamente benvenuta, il copia-incolla no.

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